Di che cosa abbiamo privato gli studenti?
I semi della ribellione sono stati già posti; adesso tocca a noi. Oggi, un numero dal tono molto deciso (ma con una importante decisione se leggerai fino alla fine)
“Ho passato gli anni dell’università in uno stato di ansia farinosa, ingovernabile: studiavo Fisica ma sapevo di non voler diventare un fisico, sul libretto avevo una media alta ma ero cronicamente fuoricorso. Non mi decidevo a cambiare facoltà, davo un esame, andava bene, cadevo lo stesso in una pozza di depressione al pensiero degli altri esami che ancora mancavano. Mi prendevo due settimane di pausa per leggere romanzi e per scrivere, e facevo ripetizioni per guadagnare qualcosa e sentirmi meno in colpa. Le giornate erano mie ma il destino era quello di qualcun altro”
(Matteo De Giuli, Sof’ja Kovalevskaja. La matematica e scrittrice che fece la rivoluzione, in Lucy - Le vite degli altri)
Buongiorno e buon inizio di settimana ♡
Ho letto ieri le parole che riporto oggi in esergo a questa Lettera (le trovi su questo numero della newsletter Lucy, alla quale ti consiglio di cuore di iscriverti); le ho sentite risuonare in me lungo tutta la giornata, rinvenendo al loro interno il drammatico specchiarsi di un’esperienza di formazione che ho appena svolto.
Da qualche mese lavoro insieme ad una ragazza di ventidue anni, iscritta all’università e profondamente in affanno. Non certo dal punto di vista accademico (colleziona 30 e 30 e lode), ma potrei dire in un’ottica esistenziale.
C. si era rivolta a me - su consiglio di una comune conoscente - per capire se il percorso universitario intrapreso potesse dirsi ‘adeguato’ rispetto alla sua persona, ai suoi desideri, alle sue attitudini. La descrizione di Matteo De Giuli della propria esperienza universitaria è quasi sovrapponibile a quella che C. mi fece il giorno (anzi… il Meet!) del nostro primo incontro. “Io mi detesto per tutti i mesi che lascio passare, prima di prendere in mano i libri del prossimo esame! E mi detesto anche di più se poi penso al fatto che gli esami vanno tutti così tanto bene!”. A C. avevo messo sin dall’inizio in chiaro che il percorso che le avrei progettato sarebbe stato tutto fuorché uno strumento, un farmaco. Niente soluzioni preconfezionate e a breve termine, ma un’immersione profonda nei suoi anni scolastici, nelle esperienze didattiche che aveva compiuto e nelle emozioni ad esse associate. Compresi subito, inoltre, come fosse necessario che C. si affidasse anche ad una psicoterapia che le permettesse di indagare/accettare le sue reazioni ed i suoi meccanismi mentali.
Nel punto in cui ci troviamo attualmente, C. ha deciso di sospendere momentaneamente la sua vita universitaria, per dedicarsi ad un progetto (che potrebbe anche diventare professionale, in futuro) che aveva sempre accantonato. Nel frattempo, lavora per una cooperativa che assiste studenti difficili nello studio pomeridiano.
Ti ho voluto raccontare - in modo vago ed approssimativo - il ‘caso’ di C. perché esso risponde a tante delle suggestioni che, nel corso di questi tredici mesi di vita delle Lettere, mi è parso utile proporre alla nostra piccola comunità educante, della quale io, te ed alcune altre splendide persone facciamo parte. Persone che sono docenti, ma anche altre che spesso mi scrivono per ‘scusarsi’ di essere solo genitori; oppure sono studenti universitari (come C.) e mi scrivono per raccontarmi quale esperienza dello studio stiano vivendo.
Che cosa accomuna le parole di Matteo con quelle che C. mi ha regalato?
Che cosa rinvengo di analogo nel percorso che suggerisce Matteo e in quello sul quale lavoro io?
Innanzitutto, mi colpisce (nel senso che mi ferisce proprio, da educatrice quale mi ritengo di essere) il senso di colpa al quale entrambi i giovani fanno riferimento, nelle loro ‘confessioni’. “Facevo ripetizioni per sentirmi meno in colpa” e il lavoro con la cooperativa per non lasciare che il mondo creda che stai perdendo tempo…
Perché sono ‘ferite’, perlomeno per me?
Perché sono esempi di che cosa, al netto di tutti i proclami e attraverso le diverse legislazioni, il sistema-che-mi-rappresenta comunica ai giovani. Non tanto nell’attualità, ma soprattutto nei trenta-quaranta anni che abbiamo alle spalle. Gli anni che hanno cementato l’idea di una scuola che deve fornire ‘forza lavoro’ alla società degli anni a venire, preparando - e convincendo - i suoi protagonisti (che non sono soltanto gli studenti!) a percepirsi come ‘risorse umane’, a dover accumulare competenze per non essere ‘lasciati indietro’; una scuola all’interno della quale la componente umanistica delle discipline (Elena, ti penso!) viene letta come inutile tempo e inutile metodo; una scuola oggi alla rincorsa dell’Uomo per quanto riguarda la valutazione e l’accompagnamento a crescere…
Devo continuare?
Poi, però, ci sono i singoli.
Che si interrogano, piangono, riflettono; che non si accontentano - perché ne uscirebbero disgustati - né di sbeffeggiare i loro studenti additandone “l’ansiah” né di conquistarne il credito a suon di game-learning e visori 3D.
I singoli che (in queste giornate di avvio delle prove di selezione) ancora credono che possa essere rivoluzionario entrare a far parte del sistema, per poterlo poi modificare dall’interno.
I singoli che acquistano il materiale didattico di tasca propria e che richiamano anche gli studenti della classe dirimpettaia, se chi dovrebbe farlo, essendo di assistenza all’intervallo, ha dimenticato la faccia educativa del proprio lavoro.
I singoli che si rifiutano di presentare progetti tanto altisonanti quanto inconsistenti… giusto per usufruire dei fondi PNRR.
I singoli, che si ritrovano su Meet per elaborare una didattica della matematica comune e verticale, anche se vivono a centinaia di km di distanza.
I semi della ribellione ci sono tutti. E mi auguro che i giovani futuri docenti, essendo stati non troppo tempo fa studenti all’interno dello stesso sistema, si vogliano ricordare di che cosa significasse essersi sentiti in colpa quando le conoscenze acquisite non sembravano saziare la sete di grandezza che avevano; di quei loro insegnanti che sapevano coniugare il lato emotivo e quello cognitivo nelle proposte didattiche e nella valutazione; degli adulti autorevoli che potrebbero avere incontrato e che hanno dimostrato loro che il futuro di uno studente non è mai quello di sostituire un altro essere umano all’interno di un ingranaggio aziendale.
È una ribellione che continuo a considerare necessaria, impellente ed anche - da un certo punto di vista - inevitabile. Una ribellione che non chiede altre armi (non apprezzo particolarmente il lessico bellico, ma proseguo nella metafora) se non quelle che la scuola già possiede, e che si chiamano discipline.
A patto di padroneggiarne la complessità (che è sempre competenza storica, relativa a come l’umanità le ha descritte ed utilizzate, e filosofica, relativa ai concetti che in quel momento, con quella classe, noi vogliamo far emergere) e di esserne - noi docenti in primis - umilmente succubi.
Non sono le nozioni (o almeno non sono soltanto quelle) a mancare, negli studenti di oggi; è il substrato di tradizione e significato nel quale esse si adagiano.
Vogliamo chiamarla - definitivamente - cultura?
Prima di salutarti e di augurarti una buona settimana (senza sensi di colpa!), voglio annunciarti la scelta che ho compiuto, per rendere ancora più ‘sostenibile’, a livello economico, l’appartenenza alla comunità educante che si sta creando intorno alle Lettere ad un (giovane) docente: ho deciso infatti di rendere molto più ‘affrontabile’ l’abbonamento annuale.
Inoltre, ti ricordo che - se volessi scegliere la forma mensile di abbonamento - ti offro io il primo mese! Basta semplicemente che tu mi scriva e mi comunichi il tuo interesse.
La speranza che ho per il futuro della scuola passa, per me, anche da queste scelte…
Adesso posso augurarti una buona settimana ♡