La conoscenza e il dolore della perdita
Neurofisiologia del distacco applicata all’apprendimento
Buon lunedì ♡
La scorsa settimana scrivevo della efficace posizione psicologica tipica del ragazzino che sta per iniziare la scuola media, esule da quella meravigliosa estate del distacco che è sempre stata fonte ed ispirazione per decine di sceneggiatori e registi.
Estate che in questi giorni, per ragazzi e ragazze, per genitori e insegnanti, sta davvero per iniziare.
La vita è costruita sui distacchi. Convivere con le discontinuità che la vita ci pone dinanzi, elaborare perdite, lutti e astinenze di ogni genere è l’eterna sfida alla quale ognuno di noi è chiamato.
Che cosa accade quando veniamo privati di un oggetto al quale eravamo abituati? Che cosa accade - nel nostro paesaggio fisiologico interno - quando perdiamo una persona cara? Quando mettiamo fine ad un amore? Quando abbandoniamo un luogo al quale eravamo affezionati?
La nostalgia lascia forse tracce anatomiche di sé?
David Eagleman - in Livewired: the inside story of ever-changing brain - illustra le modalità mediante le quali il cervello arriva a superare il senso di perdita dovuto al distacco e che cosa accade quando esso non riesce a farlo, lasciandoci in preda ad un dolore insopportabile, finché non possa almeno intervenire (se riuscirà a farlo in modo efficiente) il Tempo-grande guaritore.
Il ‘lavoro’ cerebrale va inteso come l’impegno costante nell’elaborare un modello predittivo del mondo, come l’incessante tentativo di bilanciamento tra predizione e realtà presente. Quanto più tale predizione giungerà a coincidere con la realtà, tanto meno il cervello avrà necessità di rimodellarsi. E tanto meno il soggetto percepirà la fatica dell’impegno e la sofferenza nel non essere eventualmente riuscito a far coincidere la predizione con l’esito.
Imparare a convivere con le perdite significa imparare a sintonizzare il proprio cervello rispetto ad una realtà effettiva nella quale l’oggetto di esse non esiste più. Perché ogniqualvolta accadrà - prima che questa ri-calibrazione sia efficace - che l’individuo ripenserà alla situazione o alla persona ‘perdute’, il suo cervello percepirà la differenza e tradurrà questa percezione in ‘dolore della perdita’.
Interessante rivolgere questa riflessione all’ambito didattico, declinarla nel terreno dell’apprendimento scolastico.
Mi piace infatti intendere l’apprendimento come quel luogo dello spaziotempo personale che può essere descritto come discontinuità.
A livello neurofisiologico, apprendere significa infatti instaurare nuove connessioni sinaptiche. L’anatomia di questo processo mi richiama alla mente uno degli scritti lasciatoci dal grande matematico (e quindi anche grande teorico dell’invenzione matematica) Henri Poincaré:
“Inventare è discernere, è scegliere. Fra tutte le combinazioni che si potranno scegliere, le più feconde saranno quelle formate da elementi tratti da settori molto distanti. Non intendo dire che per inventare sia sufficiente mettere insieme oggetti quanto più possibile disparati: la maggior parte delle combinazioni che si formerebbero sarebbero del tutto sterili, ma alcune di queste, assai rare, sono le più feconde di tutte”
Se è vero che ogni apprendimento è invenzione (ed è vero!), apprendere significa instaurare inedite connessioni sinaptiche, cioè combinazioni tra neuroni mai esistite in precedenza. Si tratta di un lavoro dell’organismo, di una fatica fisiologica, che diventa nuova realtà anatomica.
Riprendendo quanto affermato in precedenza, perciò, possiamo dire che quanto più la predizione coincide con la realtà presente, tanto meno il cervello avrà necessità di rimodellarsi e tanto meno apprenderemo. Tanto meno faremo fatica, evidentemente.
Le variazioni nella cartografia neurofisiologica dell’individuo accadono solo SE emerge diversità tra quanto ci si attende e quanto effettivamente accade. Didatticamente parlando, tra quanto si prevede di sapere e quanto effettivamente si padroneggia.
Mi sembra, con questo, che si possa restituire valore alla fatica dell’impegno personale e chiarezza all’evidenza del binomio ‘predizione-esito’, che è in azione nel processo dell'apprendere. Ma c’è dell’altro… e questo altro mi sembra ancor più interessante.
Se ha rilevanza creare un’analogia tra la neurofisiologia del distacco e il processo dell’apprendimento, allora apprendere si tradurrebbe nel continuare a percepire un ‘dolore della perdita’. Ma in questo caso si tratterebbe di una perdita per qualcosa che ancora non si possiede, ovvero la conoscenza.
Qualche anno fa, tenni un webinar dal titolo “Estetica della conoscenza: docenti (anche) nel digitale”, durante il quale feci luce su uno spunto filosofico - kantianamente espresso - rivolto al docente: facciamo in modo che ogni percorso di apprendimento che progettiamo e proponiamo ai nostri studenti sia volto alla ricerca del sublime e non del bello.
Lavoriamo affinché le nostre azioni didattiche mirino a generare fascino nei confronti della conoscenza e non quel divertimento temporaneo dato dallo ‘spettacolo’ di un aneddoto o dell’uso di un nuovo Modulo Google.
Perché il fascino è quella mescolanza di malinconia e stupore nei confronti di qualcosa che attrae ma che già sentiamo fuori dalla nostra portata: sapere è un orizzonte, non un luogo a latitudine e longitudine definite.
Il nostro imperativo professionale, allora, sia quello di proporre argomenti sublimi, davanti ai quali il cervello dei nostri studenti percepisca l’urto e la crisi, e l’agrodolce dolore della perdita.
Buona settimana a te ♡