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A settembre festeggerò 25 anni. Di insegnamento. Devo confessarti che fatico a credere di aver trascorso quasi tutta la mia vita lavorativa davanti agli occhi ansiosi di gruppi eterogenei di preadolescenti. Alcune delle mie prime studentesse me le sono poi ritrovate colleghe in classe, in principio incerte sul pronome con il quale rivolgersi a me. Ho custodito biglietti di auguri e lettere di fine anno, ricevuto cioccolatini e caramelle in occasione dei loro compleanni, qualche libro e tazza da tè in occasione dei miei.
Ho attraversato anni molto difficili, durante i quali mi trovavo nella condizione di dovermi giustificare per un modo di entrare in relazione con la mia disciplina - che chiedevo (e tuttora chiedo) anche ai miei studenti - da alcuni giudicato ‘anomalo’. Altri tempi, quelli erano, probabilmente. Tempi nei quali le riflessioni odierne riguardo la necessità di empatia e la lotta alla performatività strisciante erano molto in là da venire. O forse ero soltanto troppo giovane ed insicura.
Quindi oggi ho deciso che ciò che scriverò sarà propriamente una “lettera ad un giovane docente”, anzi una lettera alla giovane docente che sono stata. Per abbracciare definitivamente quella che non volevo, fino in fondo, essere. Magari, per poter essere, io, un abbraccio morbido verso qualche insegnante che dovesse sentirsi troppo giovane o insicuro.
“Cara persona che hai deciso di cimentarti in una professione che probabilmente nemmeno i tuoi familiari stretti condivideranno - o comprenderanno - mai del tutto, vorrei dirti che la strada che hai scelto riuscirà sempre a porti davanti alla tua identità. Qualsiasi siano le aree ed i temi che, di volta in volta, deciderai di affrontare, ti sembrerà che parlino a te, prima che ai tuoi studenti.
Ogni epoca della professione che attraverserai ti parlerà con linguaggio diverso: di anno in anno ti verrà detto che sono indispensabili la tecnica X oppure la teoria Y. Tu le studierai diligentemente entrambe, ma solo per passarle velocemente al setaccio della tua intelligenza e trattenere ciò che ti ‘parla’.
Imparerai a riconoscere gli uomini e le donne che, nel tuo intorno, sapranno insegnare a te ciò che merita di essere ricordato, e costoro mai più lascerai andare.
Ti morderai mille volte la lingua, spesso davanti all’ignoranza (di cuore) degli altri; ti esporrai senza timore quando le azioni che vedi compiere nuoceranno ai tuoi studenti. Li chiamerai ‘alunni’, spesso amichevolmente ‘ragazzi’ ma non ti definirai mai loro ‘amico’. Ti chiederai quale è la distanza da mantenere nei loro confronti, affinché l’autorevolezza si possa coniugare con il rispetto. Non dimenticare mai, infatti, che ogni individuo chiede rispetto e riconoscimento, indipendentemente dalla sua età. Il sarcasmo e l’umiliazione non sono mai un metodo, né una strategia, né sono degni di essere considerati una dimenticabile debolezza da parte di chi educa.
Sentirai il peso della valutazione, quella da dare ai tuoi studenti: ne percepirai tutta l’inadeguatezza e la volubilità. Ti diranno che devi farlo, ma tu… fallo a modo tuo. Nessun altro è davanti ai tuoi studenti nel modo (imperfetto) in cui lo sei tu con la tua disciplina, nessun altro è in aula mentre lo sei insieme a loro.
Infine, guarda sempre a quegli umani-in-formazione che hai davanti come ad una possibilità per te e la tua vita, non come ad uno scandalo per la tua autorità. Di essi, a te sarà dato osservare sempre una minima parte; non trasformare questa visione parziale in una complessiva della loro persona.
E ricorda che, in un sistema educativo che si prenda carico delle storture e delle ingiustizie, non è chiesto a loro di raggiungerti (in conoscenze e sapere) ma ad entrambi di costruire, insieme, un nuovo paradigma”
Buona settimana!
Simona
Bellissima, avrebbe fatto bene riceverla anche a me anche se solo dopo molto tempo be avrei capito il significato