“Ma in materia di educazione dei figli il panico di fare le cose male è molto più determinante del desiderio di farle bene”
Buon lunedì ♡
Cito anche qui - perdona la ripetizione, nel caso in cui tu abbia incrociato la mia storia su Instagram, sabato - la riflessione che A. Zambra riporta nel suo Messaggio per un figlio.
Devo ammettere di essere stata molto colpita dall’osservazione dell’autore, per alcuni motivi che oggi proverò a dettagliare. Vedi un po’ se ti ci ritrovi anche tu!
Innanzitutto, all’interno della struttura comparativa della frase spiccano i due versanti: ‘panico’ (che tradurrei, in modo più generale, in ‘angoscia’) e ‘desiderio’. Senza spacciarmi per una psicoanalista da strapazzo, credo che non si faccia fatica a rinvenire - oggi - in quel binomio angoscia-desiderio la sorgente di tanta confusione e mancanza di direzione. Questo vale per i giovani e i giovanissimi - alias adolescenti e preadolescenti, per i quali l’immagine del futuro è quasi sempre adombrata da un peso esistenziale sul presente, che rende estremamente arduo tradurre in concreta efficacia persino quei percorsi orientativi lunghi, pluridisciplinari e riflessivi che possono essere messi in atto nella scuola (*) - ma vale anche per buona parte degli adulti, non necessariamente giovani.
(*) Verso dove? è un breve (sono 73 pagine) ebook che pubblicai sul finire del 2023, dedicato proprio a chi - per professione - ha quotidianamente a che fare con quei giovani e giovanissimi di cui sopra. Se volessi capire se può fare al caso tuo, chiedimi un estratto e sarò felice di inviartelo!
È un dato di fatto.
Vi è chi, sin dal finire degli anni Novanta, lo chiamava ‘emergenza educativa’; vi fu chi lo mise in relazione con la crisi economica del 2008 e chi lo associa all’emergenza climatica (forse ‘catastrofe’ sarebbe un termine più opportuno…).
In ogni caso, lì stiamo. E conviene farci i conti.
Anche da insegnanti. Anche da genitori.
Per questo motivo mi risuonano in modo particolare le parole di Zambra, all’interno di un volume che prende origine dal fenomeno circoscritto e puntuale della paternità dell’autore, pur senza esaurirsi in esso.
In tema di relazioni educative, allora, 1) che cosa ci muove a fare bene? E poi, 2) fare bene coincide con il fare del bene? E l’osservazione per così dire simmetrica: 3) fare (del) bene significa non fare (del) male?
[ringrazio, a questo proposito, Giada, Simona ed Elisa con le quali ieri ho scambiato messaggi esistenzial-filosofici sul tema!]
In Essere e tempo, Heidegger non ha dubbi: ciò che dà sostanza alla vita, ciò che la plasma, è la cura. Addirittura il filosofo invoca una metafora molto potente: l’essere umano prese forma quando Cura, attraversando un fiume dal fondo argilloso, afferrò un po’ del materiale sul quale stava camminando, gli diede forma, e poi lo consegnò a Zeus, affinché costui vi infondesse il ‘soffio vitale’.
L’azione del prendersi cura di un altro individuo è ciò che plasma il suo essere.
Personalmente - e se mi segui da un po’ nelle mie ‘elucubrazioni’, lo sai - non vi è allegoria che mi convinca di più.
Io sono convinta, ad esempio, di svolgere una professione che attiene all’ambito delle professioni di cura. Potremmo, questa osservazione, utilizzarla per rivendicare (maggior) considerazione sociale del nostro ruolo educativo; potremmo sentirci esauriti, come Atlante, dal dover portare sulle nostre spalle tanta responsabilità; potremmo - come Alejandro Zambra, alle prese con un altro essere umano, in tutto e per tutto dipendente da lui - smarrirci tra il desiderio e l’angoscia.
Tutto vero, sicuramente. Proviamo oggi ad addentrarci un po’ di più in mezzo a questa vegetazione troppo rigogliosa; potremmo forse sentirci un po’ meno intimoriti.
Quando Heidegger parla di cura, ad esempio, egli afferma che essa non è soltanto premura nei confronti dell’altro, ma è anche azione che conduce al “venire a capo di qualcosa”. Non so se tu possa essere d’accordo con me, ma spostarsi dall’esclusività della premura ad una combinazione con una dimensione più attiva - l’azione - a me suggerisce la possibilità che si riesca a compiere quel passaggio con il quale oggi ho aperto: scivolare dall’angoscia al desiderio. Forse ‘scivolare’ non è il verbo adeguato, poiché ogni educatore - genitore, insegnante, amico/a che sia - sa benissimo che non riuscirà MAI a liberarsi dal sospetto di non stare facendo abbastanza. Diciamo quindi ‘ondeggiare’.
Ondeggiare tra angoscia e desiderio. Così va meglio, che cosa ne dici?
In ogni caso, significa non prevedere più un unico polo; scopriamo infatti che vi è anche un’altra modalità in cui stare, quella del desiderio. Del desiderio di fare (del) bene. Perché mi sembra che la premura esclusiva ‘chiuda’ un po’ intorno all'oggetto del quale ci stiamo prendendo cura, mentre l’azione - il desiderio di fare qualcosa per la vita dell’altro - è primariamente dynamis, è forza.
Il risultato, lo leggo quindi come una forza gentile, una tensione che rispetta chi ho davanti ma che non lo chiude in se stesso, lo esorta e lo accompagna ad essere altro da sé.
Ex-ducere, del resto, questo significa.
Buona settimana ♡