Buon inizio di settimana ❆
È la settimana che tuttora considero - anche se non sono più una bambina - la più bella dell’anno…
In casa mia (devo dire che ci siamo proprio trovati, tutti e quattro!) esiste questa sorta di ‘devozione profana’ all’atmosfera natalizia, che ce ne fa percepire i sentori quando la maggioranza delle folle prepara la parmigiana da portare in spiaggia per il pic-nic di Ferragosto, e che, da ottobre in poi, fa lasciare nelle stanze un’eco lontana di fa-la-la-la-la bisbigliati sulla punta delle labbra.
Ho ancora acuto il ricordo delle sensazioni associate ai periodi di malattia, quando ero bambina: il cotone morbido delle lenzuola, l’abbraccio delle coperte rimboccate, le mani ghiacciate intorno alla tazza di brodo. Ma essere malata significava, sopra ogni cosa, chiedere alla mamma di darti altri due cuscini, in modo da potersi sollevare a leggere (“sì, mi copro bene, te lo prometto!”).
E chi non ha letto I ragazzi della Via Pál durante la febbre del morbillo, alle elementari?
(nella frase soprastante vi sono almeno due indizi che dovrebbero farti agevolmente indovinare la mia data di nascita, con uno scarto di 5 anni, diciamo!)
Adesso che non sono più una bambina, continuo a venerare la sacralità dei periodi di malattia. Innanzitutto per me stessa (sono onesta, lo confesso…): la possibilità di eliminare le sveglie, di arrotolarsi nelle coperte, di alzarsi solo per scegliere un libro. [prima di attirarmi gli strali - assolutamente legittimi - che potresti lanciarmi, chiarisco che le figlie sono ormai più che maggiorenni!]
E poi, aggiungo (ed è l’inoltre che segue a quell’innanzitutto) che non mi appartiene affatto - e trovo anche abbastanza irritante - l’immagine del docente-eroe, che si presenta in classe (e in sala prof!) con naso gocciolante, occhi lucidi e brividi perché “ha troppo a cuore il programma”... Già lo penso in tempi normali, figuriamoci a una meno di una settimana dall’inizio dei cotillons natalizi!
Lungo prologo (potrebbe essere un sintomo di delirio febbrile?) per dire che, in questi giorni, ho letto una nuova puntata di una bellissima newsletter alla quale sono iscritta.
Mike Snowden rifletteva sulla cosiddetta curiosità epistemica; mentre leggevo le sue parole, continuavo a spostarmi con la mente in aula, durante le lezioni, nei momenti di studio etc.
Perché parlare di curiosità è giusto, è giusto lavorare in modo che i bambini la possano sviluppare (ti ho mai raccontato di quella volta in cui a mia mamma, nel momento della consegna della pagella, dissero che la piccola Simona era “molto curiosa”, lei me lo riportò e io… mi offesi perché credevo fosse un insulto??)... ma la curiosità epistemica mi sembra possa essere considerata quel necessario trait-d’union fra la curiosità tout court del bambino e l’interesse del preadolescente.
(nella frase soprastante vi sono due indizi che dovrebbero farti agevolmente indovinare dove ho trascorso quasi tutti i primi sedici anni della mia vita!)
[chi ha seguito uno dei percorsi delle Stanze di Valore sull’orientamento, certamente si ricorderà che tale snodo - curiosità-interesse - era stato affrontato in modo attento.
PS I percorsi sull’orientamento sono sempre attivi e aperti, dai un’occhiata al link se pensi possano interessarti e… parliamone!]
Aggiungere la declinazione epistemica all’apertura della mente indica la propensione ad affondare nella profondità delle cose, il desiderio di farsi archeologo di significati.
Come sottolinea Snowden, si tratta di uno sguardo che ha molto a che vedere con l’attenzione.
(ed anche con il suo apparente opposto, la distrazione, che era stata la protagonista del lungo percorso di approfondimento e consapevolezza degli scorsi mesi estivi, ricordi? Iniziava tutto come qui sotto… ↓)
Come tutte le attitudini, anche la curiosità epistemica può però essere soffocata.
Rote learning, lo definiscono gli anglosassoni; apprendimento meccanico.
“Adesso non dirai che non serve?!!”
“E le tabelline? E le ‘s’ del plurale? E i paradigmi verbali?”
Calma! Infatti non lo dico. Però Snowden mi ha fatto riflettere sul fatto che il rote learning è la strategia sulla quale si è basato lo sviluppo dell’AI - almeno fino a qualche anno fa, almeno fino a quando si riteneva che l’essere senzienti non dovesse per forza di cose associarsi anche all’essere emozionali - poiché il computer non si può annoiare. MAI.
Enorme problema da fronteggiare è invece quello dello studente annoiato…
Come possiamo ridare ossigeno a quella curiosità, allora? Ha senso perseguire questo scopo o dobbiamo accettare la noia come ‘effetto collaterale’ dell’apprendere?
Snowden suggerisce due strategie: il colore emozionale che si può dare agli apprendimenti e il trasformarli in misteri da risolvere.
Io penso di usarle entrambe, anche se forse mi corrisponde di più la seconda strategia…
E tu?
[e se hai o hai avuto figli piccoli, riuscivi sempre ad accettare di buon grado quella noia? Io… assolutamente NO!]
Chiudo questa Lettera chiedendomi se, tutto sommato, in fondo in fondo, il ricordo di quelle lenzuola morbide e di quelle mani ghiacciate non possa essere stato reso tanto persistente anche dalla inedita relazione con la noia che stava sperimentando la Simona bambina… (ma te l’ho detto… potrebbe essere tutto frutto di un sogno febbrile…)