“Una civiltà che ha cura di sé, e come tale tiene in massimo conto il valore della libertà, non può non dedicare risorse alla formazione del pensiero”
(L. Mortari, A scuola di libertà, 2008)
Buongiorno ✤
Dopo l’infografica della scorsa settimana a celebrazione della necessaria fragilità del pensiero, oggi vorrei concentrarmi su un altro aspetto imprescindibile di esso: il suo essere sempre dialogo.
Avevi mai pensato a quale risorsa possa essere un pensiero fragile?
Io ho proposto in settimana, alla mia seconda, la scheda che ti avevo condiviso martedì scorso e devo dire che le suggestioni che ho ricevuto dai ragazzi sono state molto interessanti.
(Non vorrei dilungarmi qui, ma se ti interessa, rispondi pure a questa email e ti invio i dati che ne ho ricavato!)
Ma perché il pensiero dovrebbe essere, nella sua intima essenza, dialogo?
Già Platone, nel Teeteto, affermava che il pensiero è quel dialogo silenzioso in cui la mente
“pone a se stessa domande e trae da se stessa risposte”
Per Platone, dunque, la mente si presenterebbe come due-in-uno: una mente che interpella ed una che risponde. Sono le narrazioni infinite tra sé e sé che generano quindi la coscienza, che è espressione di un Io consapevole di se stesso.
L’emergere della coscienza ha la sua matrice nel dialogo, poiché è attraverso di esso che si realizza la (benefica) scissione dell’originario due-in-uno.
Ti ricordi delle volte in cui ho raccontato della declinazione narrativa dell’orientamento?
Proprio da qui essa prende origine
In questi giorni ho avuto modo di approfondire la riflessione sulla didattica orientativa (grazie anche ai contenuti di un altro splendido numero della newsletter di Simona Sessini!) e adesso mi sembra effettivamente del tutto coerente che l’educazione al dialogo possa risultare la controparte coerente di essa.
È possibile che la scuola italiana (come, a dire il vero, l’intera realtà educativa, perlomeno europea) stia giungendo alla necessità di una definizione di orientamento che parrebbe esclusivamente mossa da logiche di adeguamento della scuola al mercato del lavoro ma che in realtà potrebbe appoggiarsi sull’educazione al dialogo?
Mi piacerebbe crederlo. Mi piacerebbe credere, cioè, che la richiesta fatta alle scuole (per ora soltanto il triennio della secondaria di II grado) di accompagnare gli studenti nella scoperta del loro capolavoro sia una modalità mediante la quale si stia chiedendo ai docenti di porre l’educazione al dialogo centralmente nella loro didattica. Non è una novità, certo: ogni proposta disciplinare prevede uno o più momenti di restituzione dialogica delle riflessioni compiute. Forse, però, mettere in moto la stessa capacità - quella del pensiero-dialogo - in vista di traguardi così differenti tra loro (non soltanto disciplinari, quindi) potrebbe avere un favorevole ed efficace impatto sugli studenti.
Spesso la ritrosia che osserviamo nelle nostre classi al dialogo e alla riflessione - che è anche, infatti, difficoltà nel condurre un’argomentazione - non è semplicemente dovuta a carenze lessicali. Io penso che una parte di essa sia data dalla mancanza di esperienza dei giovani e giovanissimi dello stare in dialogo con la propria mente, dell’aver verificato l’esistenza di un Io che non sempre è d’accordo con se stesso.
Non ci stupisce, questo. Non ci stupisce per il contesto culturale assorbito da chi è giovane dalla fine degli anni Novanta in poi. Il fatto che non ci stupisca non determina che non possiamo lavorare, insieme a questi giovani, in modo ancor più mirato.
Oggi ti regalo una proposta per delle attività che hanno lo scopo di aiutare gli studenti a ritrovarsi ‘soli con se stessi’.
{eh sì… oggi il paywall non c’è! Volevo offrire a tutti gli iscritti alle Lettere un contenuto che trovo particolarmente utile. Magari non è per te il momento di investire nella mia attività, ma nel caso trovassi utile o interessante quello che finora hai letto, ti sarei davvero grata se volessi condividerlo con qualche amico o collega. Anche con questo piccolo gesto puoi sostenere la mia ricerca e il mio lavoro. Grazie
Oppure, magari, potresti comunque considerare un abbonamento… Credo tu possa immaginare che cosa significhi per me poter rendere economicamente sostenibile quello che è diventato ormai il mio lavoro}
“Che ne ho fatto di me stesso?” scriveva Maria Zambrano in Persona e democrazia (2000). Si tratta di una domanda che è facile eludere; basta semplicemente non pensarci. Per rimanere coerente con il percorso di questa Stanza di Valore, direi, meglio: basta semplicemente non pensare.
Quante volte ci siamo interrogati - noi, gli adulti, i docenti autorevoli - su come sia stato possibile che siano state compiute determinate azioni? Quante volte lo abbiamo fatto anche in classe, insieme agli studenti? A me, quello che rimane di quelle discussioni è la domanda dei ragazzi che sempre emerge: “ma come possono aver fatto una cosa simile, prof?”. E trovo non sia un caso fortuito che un genere simile di domanda venga tipicamente posto da studenti ‘piccoli’ e non da ragazzi e ragazze di un triennio. Mi sembra che, crescendo, questi piccoli adulti abbiano smarrito la capacità di stare da soli con se stessi, cioè di accettare di fare i conti con sé. Attenzione, però, non sto dicendo che questo accada per uno smarrimento dell’etica; a tredici anni non sono più ‘corretti’ che a diciannove! Mi sembra che sia più conseguenza del non essere stati continuamente posti - e non solo dalla scuola, ahimè - davanti alla necessità di far parlare un Io e lasciare che esso interpelli l’altro Io.
Trovo necessario educare i giovani a guardare in faccia queste crisi (che sono anche esistenziali, sì), in modo che essi imparino ad attuare i criteri della scelta, ad esplorare possibilità, a dirimere controversie.
Mi sembra che un (gradito) corollario di una simile attenzione possa essere la lotta all’indifferenza: prendere atto dell’esistenza, in primis all’interno della propria coscienza, del due-in-uno impone di assistere al loro confronto, che in definitiva è la consapevolezza dell’avere una coscienza.
Si apprende a pensare.
E questo avviene partecipando attivamente a contesti sociali dove il pensare è attività condivisa, dove si creano quindi comunità pratiche di discorso.
Vuoi raccontarmi quando a te è accaduto di assistere alla nascita, grazie alla tua proposta didattica, di una di queste comunità?
Buona settimana…
Simona