Buongiorno e buona settimana ♢
Che cosa vorresti insegnare davvero ai tuoi studenti?
Io penso di non avere dubbi: vorrei che imparassero a dialogare con la realtà. Ad entrarvi con coraggio e a trascinarvi dentro altre persone.
Quante volte, osservando i nostri studenti, ci sembra di rinvenire gli indizi di una progressiva perdita di dimestichezza, se non decisamente di affinità, con ‘le cose’ del mondo?
Una delle più frequenti lamentazioni alle quali nella scuola ci abbandoniamo, infatti, coinvolge il mancato interesse, l’apatia - l’accidia potremmo persino definirla - degli studenti.
Eppure… quante volte, guardando la nostra stessa esperienza di vita dovremmo onestamente riconoscervi le medesime tracce?
Nessuno di noi, oggi, è immune da questa - più o meno vaga, più o meno generalizzata - perdita di sensibilità nei confronti di ciò che esiste all’infuori del nostro Io. Storici e filosofi hanno assegnato un nome all’instaurarsi di questo nuovo modo di stare al mondo: lo hanno chiamato ‘post-modernismo’ e ne hanno posto l’origine nell’immediato secondo dopoguerra.
Perciò, non è tanto per la tipologia di contenuti oppure per le strategie didattiche che il ‘mestiere di insegnare’, nel 1950 o nel 1960, possedeva dei connotati del tutto differenti da quelli che riconosciamo oggi. Era la cornice ad essere diversa; e se cambia la cornice, cambia anche l’orizzonte.
Chiunque, oggi, sia mai entrato a contatto con un interlocutore al quale possa (o debba) fare da maestro, in realtà si è accorto di quanto la sua ostentata indifferenza sia spesso un velo al quale egli stesso non aspetta altro che di rinunciare. A favore della sollecitazione di un interesse, della manifestazione di un’attenzione, della testimonianza di una speranza.
Interesse, attenzione, speranza… non sono forse tensioni dell’animo - emozioni, quindi - orientate verso l’oltre, verso il domani e il futuro?
E non è infatti forse vero che il ‘luogo’ che più di tutti temono i ragazzi e le ragazze, oggi, è il loro (e di tutti) domani?
Voglio credere che il rinnovato (inedito soltanto per i meno esperti e più ingenui tra gli educatori) interesse della politica scolastica italiana nei confronti dei temi dell’orientamento e della didattica orientativa sia il tentativo di prendersi carico di questo ‘senso di abbandono’ del domani. Inteso in modo duplice: come azione di rifiuto del giovane, nei confronti di una realtà che offre ben poco anelito, ma anche come percezione di essere stati abbandonati dalla realtà e dalla Storia, lasciati in una desolata discarica degli affetti.
[NdA. Voglio cioè credere che le scelte del Ministero non siano invece un affrettato tentativo di ‘tappare i buchi’ di una realtà occupazionale ancora da venire, rincorrendo buoi già scappati da tempo e pensando di disporre i giovani attuali all’interno di ingranaggi fossilizzati…]
Perché il domani è un luogo bellissimo in cui stare.
Ma sono la scuola e la famiglia a doversi assumere il compito di verificarlo e dimostrarlo.
Che cosa compete alla scuola?
Testimoniare la fiducia nel domani attraverso gli strumenti che sono le discipline scolastiche dovrebbe essere, per un docente, la più facile delle imprese. Il senso di quel condizionale che ho utilizzato risiede nell’evidenza che (come riportavo nelle primissime righe) siamo noi stessi figli di un’era della grande disillusione. Anche se siamo insegnanti ormai prossimi alla pensione! E questo implica un lavoro enorme che dobbiamo continuamente - quotidianamente - compiere su noi stessi, sulla relazione che abbiamo con le nostre discipline, sulla percezione stessa che abbiamo di noi come soggetti, come individui.
Non è poco e non è facile, ma è ciò che ci viene chiesto di fare.
Per rispondere ad una chiamata che, ancor prima che caratteristica della professione docente, definirei proprio ‘ontologica’: noi adulti siamo (diventati) ciò che siamo e dobbiamo tentare, prendendo coscienza di ciò e rispondendo alla nostra natura, di aiutare l’Altro - che è molto spesso il giovane che ci viene affidato - a districarsi in una realtà nella quale ha ancor meno fiducia di quanta ne avevamo noi.
E se poi fossimo noi stessi, gli adulti, gli educatori, a non avere fiducia in questo domani?
Come ci narrava Platone più di duemila anni fa nel Libro VII della Repubblica, potremmo iniziare con il dare credito a chi, liberato dalla schiavitù ed uscito dalla caverna, vi dovesse rientrare per raccontarci com’è ‘là fuori’. Potremmo, cioè, circondarci noi stessi - magari insegnanti prossimi alla pensione, appunto! - di maestri, di individui che ci riferiscano e dimostrino la possibilità di un discorso con le cose.
Poiché le ‘cose’, se interpellate, non possono mancare di rispondere. A modo loro, parzialmente, superficialmente, certo… E credo che quello di cui i miei studenti abbiano maggiormente bisogno sia la prova che quel ‘là fuori’ esista e sia anche per loro.
Le discipline scolastiche a questo servono. A null’altro. E non possiamo più accontentarci - come negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, quando il ‘mondo nuovo’ nel quale vivevamo stentava ancora a far percepire i suoi effetti - di pensare che le nostre matematica, grammatica italiana, storia etc servano a rifornire di competenze i nati dopo il Duemila.
Non è (più) un problema di contenuto, se è il contenitore stesso che si sta erodendo.
Mai come oggi, allora, le discipline che insegniamo possono testimoniare la possibilità di un ‘domani’, perché si presentano come gli strumenti in grado di rispecchiare e rispondere alla realtà.
La scuola, quindi, ha senso se sono le cose ad avere senso.
Non è l’amore per la scuola che dobbiamo (far) recuperare, è la speranza nella realtà che è fuori dalla caverna del nostro Io.
Buona settimana