“The hungry mind”, della psicologa Susan Engel, è un testo che affronta la questione dell’educazione alla curiosità. Ho la sensazione che il termine ‘curiosità’ sia spesso dai docenti svilito, quando il contesto non è più quello della scuola primaria. Come se uno sguardo aperto sul mondo fosse secondario - nell’età più matura dello studio - rispetto all’acquisizione di rigore, ordine e precisione.
Trovandoci a calcare il terreno della tanto famigerata motivazione, dobbiamo tuttavia accettare di riconoscere una relazione di causa-effetto tra curiosità e metodo. A maggior ragione - come suggerisce Engel - in un’epoca in cui il ricorso a test standardizzati sembra essere la panacea della ‘macchina dell’istruzione’.
Del fatto che la curiosità non sia da confinare all’età infantile, riducendone così la portata evolutiva, sembra essere convinto (anche) George Land, collaboratore della NASA nell’ambito del ‘pensiero divergente’. Qui puoi ascoltare il suo TED talk.
Celebre è la citazione di W. A. Ward, secondo la quale “curiosity is the wick in the candle of learning” (“la curiosità è lo stoppino della candela dell’apprendimento”). Se ci pensi, la curiosità è proprio quella molla che entra in azione nel momento in cui ci si accorge di un’assenza, di una incongruenza tra ciò che si sa e ciò che si vorrebbe sapere.
Trovo interessante (da docente) l’esito di alcune ricerche che furono pionieristiche nell’ambito delle scienze cognitive, in base alle quali venne evidenziato come il livello di curiosità viene mantenuto elevato fornendo al soggetto basse dosi di informazione. In modo che la curiosità non venga ‘saziata’ del tutto.
Perché lo trovo interessante? Perché mi sembra che possa essere un’altra delle possibili declinazioni della didattica per problemi, intorno alla quale stanno circumnavigando queste prime uscite delle Lettere. Mantenere desta, in classe, durante le ore di lezione, una tensione attiva verso ciò che stiamo proponendo agli studenti, implica effettivamente un procedere a piccolissimi passi, domanda dopo domanda. Fornendo, di passaggio in passaggio, solo quella minima quota di informazione che dia la sensazione di procedere nella dimostrazione ma che lasci aperto l’orizzonte della scoperta.
Facendo in modo, perciò, che il singolo studente possa costruire il significato. [alla fine della mia riflessione di oggi ho pensato di farti una proposta, al riguardo!]
Mi sembra proprio che - anche nell’ottica della citata ricerca cognitiva - la domanda è la risposta, quindi!
Inoltre, sempre spulciando in articoli correlati (se ti interessasse approfondire la questione, scrivimi e ti condividerò tutti gli estremi), mi sono imbattuta in una distinzione che penso possa esserci molto utile. Quella tra una curiosità a) epistemica specifica e b) diversiva percettiva. La prima è desiderio di uno specifico piccolo brandello di informazione ed è associata alla motivazione che regge la scoperta scientifica o la riuscita negli studi. La seconda, invece, è la sensazione associata al desiderio di stimoli percettivi sempre nuovi. A partire dalla secondaria di primo grado, penso che faccia parte delle nostre competenze anche saper distinguere le due forme di curiosità ma soprattutto incentivare la prima di esse.
È la curiosità epistemica ad essere coinvolta nella transizione da motivazione estrinseca ad intrinseca, ed anche - spingendo la mente più in là - possiamo affermare vada a svolgere un ruolo non indifferente nel contrastare i fenomeni di dispersione scolastica.
Buona settimana!
Simona