Buongiorno.
Oggi - l’oggi del lettore, cioè lunedì 11 dicembre - sarò in un auditorium, insieme a qualche insegnante e una settantina di ragazzi e ragazze di seconda media, a raccontare di scuola e relazioni.
A dimostrazione del fatto che la scuola è - intrinsecamente e inevitabilmente - relazione, non si tratta di un incontro pensato per dare risposta alle recenti suggestioni (o polemiche, che dir si voglia) ministeriali: sono anni che mi viene chiesto di compiere con i preadolescenti un percorso a tappe, lungo i tre anni della secondaria di I grado, che li aiuti a mettere a fuoco la figura di giovane adulto. L’orientamento è, se vogliamo, una parte cospicua di tale viaggio, ma non l’unica.
Proprio perché non sono psicologa, il convoglio sul quale inviterò gli studenti e le studentesse sarà la scuola; quello che farò sarà (semplicemente) indicare loro che cosa guardare, dai finestrini di quel pachiderma che pare ingombrare le loro vite per una quindicina d’anni almeno.
Ricordo l’espressione che, quando ero alle elementari e alle medie (ai miei tempi, ancora si diceva così..!), veniva utilizzata nella consegna di almeno un tema all’anno: “la scuola è una finestra sul mondo”. La odiavo. Forse non l’ho mai capita. Si trattava, per me, di uno di quei dogmi scolastici da ripetere in modo convinto per dimostrare di aver colto tutto, del mio status di studentessa responsabile.
Adesso - e lo prova anche la metafora che ho utilizzato! - mi è davvero chiarissimo che cosa si debba chiedere alla scuola: di educare. Insieme alle famiglie, alle offerte del quartiere e della comunità, alla televisione, ai social, a Netflix, etc.
Purtroppo, mi verrebbe da dire che - se e quando si è fortunati… - alla scuola viene consentito di istruire, mentre lo scarto che conduce all’educare si ritiene debba essere assegnato, di volta in volta, ad entità evanescenti ed estranee all’istituzione scolastica. Non ritengo che gli insegnanti siano né debbano agire da tuttologi (soprattutto in situazioni critiche e che richiedano un intervento esperto), ma auspico tuttavia che
venga concesso loro di poter irrigare le loro discipline di esperienza umana.
È l’esperienza dell’essere, non del fare; è la consapevolezza di un ruolo cruciale nella crescita e nell’evoluzione psichica di altre persone, non sterile competenza nel ‘gioco’ della propria disciplina. La competenza disciplinare è, invece, feconda in quanto (quando) è capace di selezionare quegli elementi che sono essenziali per quello studente, in quel suo momento storico. Non a caso ho utilizzato il verbo ‘irrigare’, poco sopra: tutto ciò che so, che conosco, che so fare, agisce sugli altri in funzione del ruolo che ha svolto per me, nella mia vita. Che è la vita di un adulto autorevole, di un educatore.
Nessuno si può tirare indietro, allora. Né deve delegare ad altri quella - minima o più estesa - porzione dell’educazione. Nemmeno la televisione o Netflix (lo so, mi stai ridendo dietro, purtroppo…).
Mi ero seduta alla scrivania con l’intenzione di raccontarti per filo e per segno le fermate del convoglio, e invece mi sono (ancora una volta) distratta pensando al ruolo che abbiamo, e dal quale non ho alcuna intenzione di dimettermi.
Volevo raccontarti che ho incentrato tutto il percorso di questa mattina intorno al concetto di diversità, intesa come percezione di una estraneità rispetto ad altro.
l’estraneità che fa muovere verso, perché rende palese una distanza
l’estraneità che diventa desiderio
Un desiderio che è di conoscere, di andare incontro, di compiersi
L’altro può essere un testo della letteratura, una tecnica artistica, l’opinione della compagna di classe, la rabbia che sento di provare.
L’altro è ciò che non fa parte del proprio orizzonte, perché magari non abbiamo ancora le parole per descriverlo.
È l’altro estremo della relazione.
E senza relazione, non esisto nemmeno io.
Ma ogni relazione deve essere accudita; deve essere innanzitutto riconosciuta, poi accettata e infine, per sempre, custodita. Si parla di responsabilità, si parla di rispetto.
Che l’altro sia la matematica oppure la ragazza che ho davanti e che non conosco, il criterio non cambia. Non cambia la tensione umana che mi conduce verso (sono il desiderio di imparare, di stare insieme, di trovare conforto e condivisione), né deve cambiare la modalità con la quale tratto questa relazione.
Perché non devo dimenticare che un capo del filo è in mano mia; e se disprezzo o distruggo ciò che è all’altro capo, è il filo a bruciarsi nelle mie mani e a incenerire anche me.
(fili, specchi, metri da sarta… vado quindi a recuperare un po’ di materiale di scena per domani, ciao!)
Buona settimana a te!
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GRAZIE…