Buon martedì ✫
“Alla riscoperta della scuola come Istituzione” era il sottotitolo che avevo assegnato al primo passo del percorso Una Istituzione per ‘noi’, martedì scorso. Ho appena terminato di leggere un articolo (questo) che mi ha suggerito molte riflessioni - e destato altrettante preoccupazioni, lo confesso - proprio relativamente al tema che avevo deciso di porre sotto la lente d’ingrandimento.
L’articolo ricorda come, più o meno un anno fa, l’INVALSI diffuse i dati relativi ad un nuovo indicatore: l’indicatore di fragilità. Attraverso tale parametro venivano posti in evidenza gli studenti che non avevano raggiunto livelli adeguati nei test standardizzati. Lo scopo dell’introduzione di uno strumento simile era quello di ‘individuare’ quanto più precocemente possibile gli studenti potenzialmente ad alto rischio di abbandono scolastico. So di alcune scuole che, infatti, hanno deciso di programmare i propri interventi - nel quadro del Piano di Miglioramento - progettando e adottando strategie che possano consentire di monitorare con maggior efficacia - negli anni precedenti lo svolgimento della prova nazionale - gli esiti nelle simulazioni delle prove Invalsi. Proprio per porre una maggiore attenzione agli studenti che dovessero evidenziare una fragilità come quella indicata dall’istituto dell’Invalsi.
Terminata la lettura dell’articolo, ho dovuto impormi di avviare un dialogo interno con me stessa per trarne qualche buona suggestione. La standardizzazione delle prove, di per sé, mi genera orticaria (ops! non si era ancora capito?) e l’idea che il non raggiungimento degli obiettivi minimi sia utilizzato come ‘indicatore’ di un futuro abbandono scolastico mi rattrista.
Vorrei adesso motivarti le ragioni sia dell’orticaria che della tristezza. Ed anche utilizzarle per procedere lungo il nostro percorso, per continuare a vedere nella scuola quella Istituzione (nel senso definito da Mauss e Meirieu, citazioni che ti riporto ancora, rispettivamente, qui sotto):
“È inutile andare a cercare lontano dove si trovino il bene e la felicità. Si trovano nella pace imposta, nel lavoro ben ritmato, svolto in comune e individuale, nella ricchezza accumulata e poi redistribuita, nel rispetto e nella generosità reciproci che sono insegnati dall’educazione”
“Il valore delle istituzioni [risiede] nella possibilità che esse offrono al singolo individuo di entrare in relazione con l’ideale, e di conseguenza di orientare la vita di ognuno verso di esso”
Per quanto concerne il rash cutaneo, la ragione è presto detta.
Non che io non reputi utilissimi i quesiti che per la mia materia vengono proposti dall’Invalsi, anzi. Permettono di orientare l’insegnamento (della matematica, nel mio caso) secondo gli assi cruciali della disciplina, in barba ai programmi e agli indici dei manuali di testo. Io stessa ho più volte svolto l’intera programmazione annuale della classe terza esclusivamente partendo dai problemi che pescavo a caso nelle prove nazionali degli anni precedenti (e riservando agli esercizi del manuale soltanto una parte della richiesta per l’impegno pomeridiano degli studenti). Ma quante volte il traguardo finale della prova Invalsi viene utilizzato in questo modo? Sempre per quanto riguarda la matematica, ho conosciuto insegnanti che facevano svolgere un paio di simulazioni da febbraio in avanti, giusto per ottenere qualche voto (e mettersi al riparo da contestazioni da parte delle famiglie!); questi episodi erano gli unici in cui quegli studenti si potevano confrontare con la richiesta della prova nazionale. Peggio… erano gli unici in cui essi intuivano che la matematica era altro che non applicazione di una tecnica.
In queste (pessime) condizioni sperimentali (poiché l’intero apparato è stato messo in essere per saggiare in condizioni riproducibili le competenze degli studenti) ritengo sia oltremodo scorretto valutare il non raggiungimento di obiettivi minimi da parte di alcuni studenti.
È vero che, rispetto ad una quindicina di anni fa, l’editoria scolastica si è fatta in quattro per riempire i manuali di matematica di simulazioni, prove, allegati etc., tanto da mettere in condizione qualsiasi insegnante di realizzare una didattica per problemi. Dobbiamo, però, anche onestamente riconoscere che l’imprinting della scansione cronologica (che raramente si sovrappone a quella concettuale) nella presentazione degli argomenti non aiuta affatto una didattica simile. Né la aiuta la proposta percentuale, all’interno dei suddetti manuali, che provi ad esulare dalla modalità ‘esercizio’. Se non insegni matematica, prova ad aprire dieci manuali a caso e calcola il rapporto tra le pagine dedicate alla risoluzione di espressioni (tanto per citare un argomento) e quelle che riportano problemi da risolvere impostando l’equazione, argomentazioni logiche, scoperta della frase che descriva (alla virgola!) una certa situazione o relazione tra oggetti, etc.
Come possiamo valutare il non raggiungimento di un obiettivo minimo se la nostra stessa didattica ha ruotato in modo incessante intorno ad esso, senza mai ‘affondare il colpo’?
E questo, per quanto riguarda l’orticaria. Adesso viene il turno della tristezza.
La tristezza, tutto sommato, è l’emozione derivante dall’irritazione precedente.
Ho immaginato di dare voce ad uno studente come ne ho avuti tanti…
“Sono uno studente di terza media, che fra tre mesi dovrà sostenere la prova nazionale. Non sono quel che si dice “un genio della matematica”: me la cavicchio, intorno alla sufficienza, anche se spesso avrei bisogno di un po’ più di tempo per digerire i concetti. Però ho dalla mia una gran forza di volontà, e quindi gli esercizi che mi assegnano a scuola, li svolgo sempre tutti. O almeno cerco di farlo. I miei genitori mi hanno anche affiancato una bravissima studentessa universitaria, un pomeriggio a settimana. Anche con lei, mi sembra di capire, ma poi, quando mi ritrovo faccia a faccia con alcune richieste, il cervello ‘mi va in pappa’ e dimentico tutto quello che lei mi ha appena spiegato. La invidio; ho capito che ha vent’anni e sta facendo Ingegneria, però mi sembra impossibile che lei abbia sempre una soluzione per ogni domanda! Quello che proprio non riesco a capire è quando mi dice: “sì, potresti fare così, però la strada sarebbe lunghissima e rischi di sbagliare; proviamo invece ad usare questo metodo…”. Già sono certo di pochissime cose, nella matematica, figuriamoci se mi viene in mente di non usarle per “provare qualcosa di nuovo”!
In classe, abbiamo appena svolto una simulazione della prova Invalsi… Al termine, alcuni miei compagni erano in lacrime; io, tutto sommato, ero anche tranquillo. Non avevo capito quasi niente del testo di molti dei quesiti, avevo la sensazione di aver ‘buttato là’ la risposta in alcuni altri, e non potevo dirmi abbastanza sicuro di quello che avevo fatto in nessuno di essi! Ci fossero almeno state delle equazioni da risolvere o delle espressioni…!
La mamma mi ha detto che, fino a qualche anno fa, la prova Invalsi faceva parte della valutazione di uscita dalle medie. Aiuto!! Meno male che sono nato qualche anno più tardi! Penso che sarei stato bocciato. Certo, mi dispiace se arriverò alle superiori con una ‘brutta presentazione’, per quanto riguarda la matematica. Di certo, non avrei mai scelto un liceo - né tantomeno uno scientifico! - ma quando si tratta di applicare una formula o una tecnica di calcolo non sono poi così tanto in difficoltà. Spero di continuare a cavarmela e di incontrare dei prof che non mi considerino ‘tonto’ perché non capisco al volo… Spero che capiscano che ho voglia di imparare.”
So bene che gli esiti della prova raramente vengono utilizzati come ‘test d’ingresso’ nella scuola superiore, però ho sempre provato un’infinita compassione nei confronti di quegli studenti che, appunto, “non raggiungevano il livello minimo”. Per quanto avessero avuto davanti agli occhi i quesiti sin dalla prima media, per quanto ognuno di essi fosse stato sempre utilizzato come punto di dialogo e di costruzione in classe, per quanto io mi sia sempre rifiutata di inserire le valutazioni relative alle simulazioni nel voto complessivo finale in pagella.
Mi si dirà che un’analisi predittiva, del tipo di quella proposta dall’Invalsi lo scorso anno, ha la funzione di porre l’accento sulle situazioni ‘a rischio’. Mi chiedo però: si rileva il rischio per poi abbassare la probabilità che la situazione paventata si verifichi oppure si rileva il ‘portatore del rischio’ per seguirne le tracce? Non è la stessa tensione educativa, quella che fa a capo alle due situazioni.
Si tratta di una sorta di test genetico per andare ad identificare un marker tumorale? Starà poi al portatore di esso scendere a patti con la eventuale risposta positiva e valutare le azioni da compiere?
E poi, lo dico in tutta chiarezza… mi spaventa un po’ l’idea che un ragazzo o una ragazza di quattordici anni siano ‘marcati’ in questo modo per poter essere monitorati con maggior facilità negli anni successivi.
“Vogliamo davvero delegare ad un circolo ristretto di esperti, i nuovi oracoli INVALSI, la possibilità di predire il successo o l’insuccesso degli studenti a partire da un test?” (articolo citato in apertura)
e ancora…
“Intravediamo una nuova idea terapeutica di istruzione emergere dalle parole del Presidente INVALSI, che ricalca la logica della “medicina di precisione“: combinare big-data e intelligenza artificiale per seguire la biografia socio-cognitiva di ogni studente, nell’illusione di potergli “cucire addosso” interventi che ne prevengano l’insuccesso o esaltino l’ eccellenza. E’ il connubio: personalizzazione di Valditara – neovalutazione INVALSI”
Che cosa c’entra questa riflessione con il nostro percorso? Be’, se la scuola è una Istituzione per ‘noi’, allora abbiamo il diritto di sentirci tutelati nella nostra persona da essa.
Nelle righe seguenti, mi addentrerò in quella che può essere (ancora) definita la componente ‘emancipatrice’ della scuola (che, se ci rifletti, è termine agli antipodi della ‘standardizzazione’).
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