La scuola: un luogo nel quale piacersi
Corollario: può esistere il job-sharing anche nella scuola?
Buongiorno ✫
Sebbene ormai abbia scelto questo spazio su Substack come canale di comunicazione preferenziale per le riflessioni e le proposte circa la mia professione, rimango ancora molto affezionata ad Instagram, che utilizzo probabilmente molto ‘da boomer’ ma che mi ha regalato - in questi ultimi anni - amicizie reali ed anche impreviste opportunità.
Perché questa ouverture?
Perché gli ultimi due post che là ho scritto (sono questo e questo) hanno generato un ‘traffico’ di commenti e condivisioni che, sebbene non mi abbia del tutto stupita, mi ha dato ulteriormente da pensare.
Perché il tenore di quei due caroselli era lo stesso (sebbene il tono fosse più volto all’ironia) di quello che ti sto proponendo qui da un mese, nel corso dei Martedì delle Lettere: Un lavoro a misura di ‘persona’.
Che cosa significa tutto ciò?
Be’, innanzitutto direi che - evidentemente - il tema del riconoscimento professionale e personale è tutt’altro che sbiadito, soprattutto se il nostro lavoro è insegnare!
Nella sezione dedicata agli abbonati, martedì scorso raccontavo di come e quando avessi deciso di mettere in campo delle strategie anti-esaustione, per poter procedere nell’attività docente in condizioni di benessere psicofisico. Sono tornata (non senza qualche difficoltà emotiva, te lo confesso) a ricordi nemmeno troppo lontani nel tempo e ho cercato di trarne delle indicazioni che potessero valere per tutti.
Trovi strano che rimanga su questo argomento nel giorno - per me che sto scrivendo - dell’apertura delle prove concorsuali per intraprendere la carriera docente?
Forse avrei dovuto soprassedere, perché magari anche tu stai studiando da anni per ricevere il riconoscimento sociale di ‘professionista della didattica e dell’educazione’ e l’ultima cosa che vorresti sentirti dire è che “il sistema è malato”…!
Forse - proprio per quel motivo - adesso correrai in coda a questa e-mail e cliccherai su “Disiscriviti”.
Accetto il rischio.
Perché, anche nel caso in cui oggi mi leggessi con fatica e poca attenzione per la prova scritta di ieri, penso che le riflessioni che - con questo percorso - ti propongo di avviare possano farti entrare nel mondo della scuola con ‘un’arma in più’. Perlomeno con maggior consapevolezza.
Martedì scorso mi sono concentrata sul concetto di valore che riusciamo ad assegnare a noi stessi come professionisti e sulla necessità di agire in modo coraggioso per rendere la nostra attività un luogo nel quale piacersi.
Ti è mai accaduto di vivere “un prolungato periodo nel quale si sperimenta esaustione e perdita di interesse per cose e attività”? (ho riportato una delle definizioni cliniche di burnout)
Leggendo i commenti dei colleghi e delle colleghe nei due post che ti citavo in apertura, mi colpisce quanto sia diffuso il malessere dato dalla presenza, nella scuola, di relazioni (‘tossiche’, le chiamerebbe la narrazione pervasiva attuale) che negano il riconoscimento dell’individuo.
Avere a che fare con altri docenti che sminuiscono il tuo lavoro, sentirsi ‘messi alla berlina’ durante un collegio docenti nel quale vengono proiettati gli esiti differenziali ottenuti dalle varie classi nelle prove comuni, sentirsi rispondere “si è sempre fatto così, perché cambiare?” alle proposte di sperimentazione… devo proprio continuare?
Mi si dirà che è il mal comune di ogni luogo di lavoro (e sono davvero convinta sia così). Tuttavia, trovo che per quanto riguarda la scuola, vi sia un’aggravante.
Mettiamola come una sorta di ‘proprietà transitiva’, dai… La nostra è una professione di cura, e quindi il livello di benessere del quale noi facciamo esperienza ha enorme rilevanza nella struttura che poi diamo alla relazione con gli studenti. Non sto dicendo che se viviamo un disagio, poi sarà automatico trasferirlo sulle classi (mi rifiuto di pensarlo); nella relazione educativa, testimoniamo chi siamo. E quindi anche l’esperienza professionale che stiamo vivendo.
‘Testimoniare’ non significa riproporre uno stile o reagire ad azioni compiute su di noi, ma colorare le nostre proposte alla luce del clima interno che percepiamo.
Nessun professionista può evitare che ciò accada. E nell’ambito educativo, è bene che questo accada, poiché siamo fatti di relazioni.
Le Storie di Instagram che ha proposto Simona Sessini domenica (qui la trovi come Il caffè del lunedì) risuonavano su questa stessa nota. Alla domanda “scuola su 5 giorni: SÌ o NO?”, sono stata felice di osservare come la maggioranza delle risposte dei docenti insistessero sull’enorme guadagno in termini di benessere mentale e fisico per i docenti, relativo ad una settimana organizzata dal lunedì al venerdì.
Che poi la didattica sia da modificare, questo è indispensabile (lo dico anche da madre di una ragazza che si è letteralmente esaurita, negli ultimi due anni di liceo classico, dopo il passaggio alla settimana corta!). Sarebbe tuttavia ingiusto - ed anche poco intelligente - escludere dalla valutazione che facciamo l’aspetto della felicità del lavoratore.
(a meno che, come sottolineava ironicamente Simona, coloro i quali antepongono la necessità di una didattica immutabile non siano anche gli stessi che… hanno il sabato libero tutti gli anni!)
Oggi vorrei perciò concludere questo anomalo percorso delle Stanze di Valore - nella parte che si trova dopo il paywall e che è quindi riservata agli abbonati - raccontandoti ancora di me; di quali scelte ho compiuto io, negli anni, in modo da salvaguardare al massimo quella felicità (o almeno la tensione ad essa).
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