“Poi piovve dentro a l’alta fantasia”
(Pg, XVII, 25)
“La fantasia è un posto dove dove ci piove dentro”
(I. Calvino, Lezioni americane)
{Oggi inizia un nuovo percorso di formazione sostenibile, dedicato a La distrazione come risorsa. Per otto settimane, ogni martedì dei mesi di luglio e agosto, ti accompagnerò nell’esplorazione di un concetto che troppo spesso siamo stati abituati ad inserire nella ‘lista dei cattivi’.
Ho deciso di rendere disponibile questo primo articolo del percorso a tutti gli iscritti, anche ai non abbonati, alla newsletter.
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Per introdurre la lezione dedicata alla visibilità, Calvino partì proprio dal verso dantesco, concludendo poi con la sua chiosa, che riprende - quasi in parafrasi - i termini della questione affrontata sei secoli prima. In quel medesimo canto XVII, Dante si pose a definire la facoltà dell’immaginazione: “O imaginativa che ne rube / talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge / perché dintorno suonin mille tube, / chi move te, se’l senso non ti porge? / Moveti lume che nel ciel s’informa / per sé o per voler che su lo scorge” (Pg, XVII, 13-18)
O immaginazione, che hai il potere di importi alle nostre facoltà e alla nostra volontà e di rapirci in un mondo interiore strappandoci al mondo esterno, tanto che anche se suonassero mille trombe non ce ne accorgeremmo, da dove provengono i messaggi visivi che tu ricevi, se i sensi non ti forniscono percezioni?
Qual è il rapporto tra realtà e fantasia? L’immaginazione, la fantasia, permettono di evadere dalla realtà oppure consentono di vedere più profondamente in essa?
In pieno periodo di sospensione delle lezioni, forse ha senso interrogarsi se il legittimo desiderio di evasione dalla realtà quotidiana non possa essere in effetti declinato come possibilità di immergersi più significativamente in essa, svincolandosi da tutto l’apparato burocratico che appesantisce e offusca la nostra professione.
Mi piace ricordare i tre livelli di ‘fantasia’ che C.S. Lewis individuava nell’azione narrativa:
a) la costruzione immaginaria che appaga il soggetto ma viene da esso confusa con la realtà; in questo caso il termine è quindi sinonimo di ‘illusione’;
b) la costruzione immaginaria coltivata dal soggetto ma senza convinzione che sia realtà; questo genere di illusione - definibile come ‘sogno ad occhi aperti’ - è ancora, in sostanza, una fuga dalla realtà, considerata semplicemente insipida;
c) il livello del ‘sogno normale’, nel quale si esprimono desideri e tensioni senza che essi escludano o allontanino la realtà
Lewis, in sostanza, sottolinea come a definire la fantasia sia il suo rapporto con la realtà: più ce ne allontaniamo e più rischiamo di confonderla con l’illusione. La lettura, che ha il potere di aprire mondi (possibili, impossibili, verosimili o meno), è solamente evasione dalla realtà? La fantasia, l’immaginazione, sono davvero soltanto delle lenti in grado di trasformare la realtà?
L’azione del trasformare, di fatto, porta un oggetto a scomparire letteralmente, a favore di ciò che si desidera vedere. In tal modo, esercitare la facoltà dell’immaginazione condurrebbe ad esplicitare la frattura tra l’io e la realtà. Se invece immaginare si esprime nella possibilità di analizzare meglio, più in profondità, la realtà, allora la fantasia sarebbe una vera e propria esperienza conoscitiva.
Facciamo allora in modo che il nostro tempo dell’estate sia tempo di immersioni nella natura delle cose e di scalate alla loro radice
Approfittando del clima di sospensione, ho quindi deciso di dedicare i mesi di luglio e agosto di questi ‘martedì di riflessione’ all’esplorazione accurata del concetto di distrazione. Cercando di procedere oltre la visione, frutto del retaggio secentesco (da Pascal in poi) che la concepisce come limite, come ‘peccato’.
Il filosofo contemporaneo Byung-Chul Han, nel saggio “La velocità della storia”, offre un’interessante riflessione sull’evoluzione dei concetti di distanza e di durata nell’epoca contemporanea e post-moderna. Egli approfondisce gli effetti psicologici ed emotivi di quella ‘rivoluzione relativistica’ - di circa un secolo posteriore a quella di inizio Novecento che aveva messo in crisi il contesto della Fisica - che coinvolge la dimensione identitaria e sociale dell’uomo.
Le tecnologie delle quali possiamo (più o meno) quotidianamente usufruire conducono infatti a ridurre in modo drastico le distanze, ma al contempo generano un paradossale distacco dell’uomo dalle sue esperienze. Corollario temporale di questa variazione nello ‘spazio delle cose’ è lo scivolare verso la percezione di un tempo che si fa via via più contratto, nel quale il valore della durata subisce una progressiva erosione. Già Heidegger aveva evocato il dominio di un presente che si stava facendo sempre più puntuale e quindi astorico, sottolineandone l’effetto di contrazione, nell’esperienza ad esso associata.
La conseguenza di questa nuova, fugace, temporalità è lo smarrimento delle esperienze, poiché - se ci riflettiamo - ogni vera esperienza poggia sull’intreccio dei tre orizzonti di tempo. Chi fa esperienza, infatti, non la abbandona al passato, ma la trattiene nel proprio presente, per illuminarlo, in un certo senso. Affinché ciò che rimane intrecciato nell’oggi possa poi proiettare un senso anche nella terza dimensione, quella del tempo che-ancora-non-è. L’esperienza - vogliamo chiamarla vita ..? - si sviluppa sul lungo periodo, procedendo attraverso molteplici istanti di transizione tra passato e futuro. La vita è intensa, ricca di senso, contrariamente al singolo evento, che è puntuale ed estremamente povero in informazione. La vita come conoscenza, infatti. Inutile sottolineare - in questo luogo, nel quale io e te siamo ugualmente coinvolti nella scelta di voler riflettere sugli estremi del contesto formativo - come la conoscenza sia infatti ‘di spessore’ proprio se traduce ogni singolo dato fra gli orizzonti passati e quelli futuri. Si genera allora un intreccio di fili nei cui nodi si annida il sapere.
Le cose, ed anche gli eventi, la vita così come le opere, hanno una memoria.
Se priviamo di memoria un’esperienza, essa si trasforma in un evento passeggero, uguale a tanti altri; se priviamo di memoria un’opera (un qualsiasi prodotto dell’arte e della tecnologia umane), essa si riduce ad una merce. Senza voler stupidamente tuonare contro il progresso, credo sia un dato di fatto che una percezione molto spesso privata di senso, per oggetti ed avvenimenti, sia la costante nella vita nostra e - ancor più - dei nostri studenti millennials.
Sono sempre le parole di Proust che mettono in luce l’angoscia che il ‘nuovo tempo’ genera nel ‘nuovo Uomo’, ma anche la strategia che permette di riacquisire certezza:
“[...] svegliandomi nel pieno della notte, io non sapevo più dove mi trovassi e, in un primissimo momento nemmeno chi fossi, [...] ma a quel punto il ricordo [...] veniva a me come un soccorso dall’alto per strapparmi dal nulla al quale da solo non sarei riuscito a sfuggire; in un secondo scavalcavo secoli di civiltà e le immagini, confusamente intraviste, di qualche lampada a petrolio, poi di alcune camicie col collo piegato, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io”
Una vita scandita da un ritmo contratto è una vita limitata, una vita ‘senza senso’, una vita trascorsa ‘a fare altro’: perde durata perché perde ampiezza, è vuota di esperienze. È Morte-in-Vita. Ma poiché l’istinto di sopravvivenza permane, a questa particolare mortalità rispondiamo manifestando inquietudine, affannandoci, inanellando altre puntuali non-esperienze. E ne usciamo disorientati, in preda ad un febbrile alternarsi di sensazioni.
Quanti giovani abbiamo accompagnato, negli ultimi anni, prendendoci carico e tentando di sostenere il loro sguardo ‘morto’?
È come se l’esistenza si affretti verso un finale, senza declinarsi più in quelle svolte e transizioni che erano proprie di una vita sensata. “L’uomo non è più animale della soglia”.
Zygmunt Bauman propone di leggere la dimensione moderna dell’uomo come quella di un soggetto in transizione fra l’etica del pellegrino e quella del turista. L’uso di questa metafora evoca sia la sottolineatura dell’ambito teleologico, progressivamente in fase di sgretolamento quanto più ci si allontani dalla figura del pellegrino, sia la necessità di considerare anche la ‘velocità di marcia’ del viaggio.
Han procede sulla via indicata da Bauman, potenziando, nella visione post-moderna dell’uomo, la caratteristica dell’agitazione, o meglio dell’agitazione senza una direzione, in una sorta di moto browniano applicato agli individui di una società. Non più pellegrino, sarebbe l’uomo attuale, ma nemmeno turista; avremmo davanti, spesso dentro noi stessi, individui agitati, appunto, in perenne corsa febbrile tra eventi diversi. Non ci si sposta più placidamente da un’informazione all’altra, da un’immagine all’altra, di pensiero in pensiero: informazioni, immagini e pensieri sono fagocitate senza nemmeno essere digerite. Non abbiamo più, nel vivere le nostre giornate, la placida andatura del flâneur (quella stessa che non fatico ad associare ad un Marcel Proust in gita a Combray) e tuttavia ci è - se non estraneo - inadatto anche l’andare placido del vagabondo. Non di rado abbiamo la sensazione di fare zapping nel mondo e nelle nostre esistenze. Certamente, questa è spesso la sensazione che mi trasmette uno studente adolescente, ma anche di età più giovane. Lo zapping dice di una contrazione del presente, che nasconde in sé un paradosso, perché catapultarsi da un evento/pensiero ad un altro rende possibile qualsiasi cosa. Si vive un eterno presente simultaneo, all’interno del quale, però, si smarrisce la durata degli attimi. Su di essi diviene impossibile sostare in modo contemplativo, assegnar loro un ruolo all’interno del sistema. C’è solo ressa.
Che cosa significa recuperare la dimensione della durata, nelle nostre vite?
Si tratta di ridare profumo al tempo, come manifesta Byung-Chul Han attraverso la scelta del titolo di un suo volume (richiamando, ancora una volta in questo percorso, una proustiana descrizione, la celebre esperienza della madeleine).
Può essere che le conclusioni della neurofisiologia ci indichino - adoperando una sinestesia - il ‘colore’ dell’esperienza che dovremmo riuscire a recuperare? Quando un profumo o un odore circoscritto ci proiettano indietro di anni, facendoci sfiorare l’impalcatura dei ricordi più sepolti nella memoria, non potrebbe essere dovuto al fatto che quei precisi istanti erano stati vissuti con quella profondità e dedizione che poi consentì loro di diventare ‘elemento di una storia’? Un elemento che sarebbe stato possibile recuperare nel momento in cui un qualsiasi istante, successivo ad esso, avesse evidenziato un timbro comune, il profumo?
Riflettiamo un momento sul senso dell’olfatto: è il più primitivo, ed è anche il più lento nel manifestare gli impulsi e il più fuggevole nel permanere a livello cosciente. Se confrontato con la vista, per quanto riguarda l’influenza che ha nelle nostre vite, parrebbe proprio di scarsa utilità. Pensiamo però a quante incitazioni alla lentezza stiamo assistendo, da una decina di anni a questa parte. Il vivere slow sembra la nuova frontiera.
L’uso della metafora olfattiva avrebbe quindi il ruolo di condurci in questa ‘operazione di recupero’, che potremmo decidere di svolgere su noi stessi - in una specie di ‘esperimento scientifico’ - durante i mesi (mi auguro) lenti dell’estate.
Non a caso, qualche riga sopra mi sono servita del termine ‘storia’. Quando ogni singola esistenza riesce a riagguantare la propria dimensione storica, è in grado di recuperare estensione, significato, ampiezza narrativa. Se la vita è storia, non esistono intervalli di tempo vuoto nei quali non accade nulla: il sistema si caratterizza allora per una sua continuità narrativa, grazie alla quale non si corre il rischio di sperimentare la mancanza di senso dei punti posizionati all’esterno del filo.
Il tempo puntuale genera una vita atomizzata, che manca di tensione narrativa. Nulla connette gli eventi l’un l’altro e perciò la durata non nasce.
Per ridare tensione narrativa ad un’esperienza di vita dobbiamo quindi riscoprire il tempo dell’indugio, sostare in modo contemplativo su ogni singolo punto, in modo da riallacciarlo al resto dei punti.
Avremo perciò un ‘tempo ancor più nuovo’, il tempo dilatato della durata, configurato da una - particolare, unica, irripetibile - concatenazione di eventi, nel quale la narrazione assocerà un profumo, altrettanto unico, ad esso. Ogni vita verrà percepita come irripetibile, guadagnando ampiezza e profondità.
Vivere gli istanti che ci ‘capitano’ in modo da assaporarli (e il profumo si compie nel sapore, allora...), indugiando su di essi, li renderà - in un certo qual senso - eterni, cioè in grado di essere trattenuti in una consapevolezza. Milioni di istanti, migliaia di eventi, diverranno esperienze: la vita sarà una composizione, narrativa. A dare un quadro - un autoritratto - la cui cornice è l’identità.
L’estate che ci aspetta potrebbe quindi essere consapevolmente dedicata al bighellonare placido tra le esperienze, a viverle indugiando in esse, lentamente assaporandole. Ad indugiare in modo contemplativo e rispettoso sulle cose, prendendone distanza, in modo da costringerle a rivelarci la loro essenza, cioè la loro bellezza.
“Lo sguardo lungo e contemplativo [...] è sempre quello in cui l’impulso verso l’oggetto è spezzato, riflesso. La contemplazione senza violenza, da cui viene tutta la felicità della verità, impone all’osservatore di non incorporarsi nell’oggetto”
PS La scelta dell’immagine iniziale, di un sentiero di campagna, non è affatto casuale, nel desiderio di scrivere qualcosa relativamente all’indugiare contemplativo. Ognuno di voi la sostituisca liberamente con ciò che è in grado di evocare un’esperienza lenta di vita.
Buona estate e a martedì prossimo!
Simona
{Magari non è per te il momento di investire in uno degli abbonamenti di Lettere ad un (giovane) docente, relativi alla formazione. Ti sarei davvero grata anche se volessi sostenere il mio lavoro condividendo questo post con amici e colleghi. Grazie ♡}
Ho recuperato questa tua "vecchia" lettera e ho ritrovato Han: ho letto da poco Vita contemplativa e tra tante citazioni e riferimenti che non ho compreso, vi ho trovato altrettanti spunti interessanti... Ma non basta. Bisogna rallentare, contemplare, fare attenzione... Invece sono qui a fare 5 cose insieme (o meglio interrompendone in continuazione una per proseguire con l'altra, pensando all'altra ancora. È difficile.)