Buon venerdì ✰
Uno dei pregiudizi più radicati, nei docenti che iniziano i percorsi di formazione con me, è legato proprio all’aggettivo ‘narrativo’, che ritengo sia ineliminabile dal sostantivo 'orientamento' e che sempre vado a porre come pietra d’angolo, sin dall’inizio del lavoro condiviso.
Di quale pregiudizio si tratta?
Soprattutto quando il docente non appartiene alla vasta area umanistica, vi è sempre un iniziale momento di smarrimento e di - bonariamente detto - polemica. Perché il fatto che l’insieme delle azioni ed esperienze da far compiere agli studenti si presenti in una declinazione narrativa sembrerebbe, già di per sé, indicarne come strumento esclusivo la scrittura. E questo non è assolutamente vero. O meglio, non è necessario che ciò che è la narratività di un percorso di orientamento si esplichi in una modalità che usa la parola scritta e le abilità e competenze di lettura e scrittura. Lo strumento del testo in lingua (da analizzare o creare) è una delle possibilità che si offrono al docente che voglia comunque essere, per i suoi studenti, un punto di riferimento nell’osservazione di sé.
La didattica diventa esplicitamente narrativa quando offre - giorno per giorno, in ognuna delle sue attività e proposte - la necessità e possibilità di riscrivere una storia. Ma una storia può presentarsi in modalità anche molto distanti dal racconto scritto.
Una didattica che scelga (perché si tratta sempre di una scelta del docente, e persino alquanto coraggiosa) di farsi orientativa è, in sostanza, un modo di incontrare gli studenti - attraverso gli argomenti e i metodi della propria disciplina - che consente loro di ritornare sul loro vissuto e di leggerlo con sguardo via via differente. Di leggerlo e di restituirlo agli altri.
In che cosa consiste il vissuto?
Semplicemente, è l’esperienza di apprendimento (o di non-apprendimento) che lo studente ha compiuto. Può benissimo trattarsi del teorema di Pitagora oppure della realizzazione di una assonometria. Facile considerare che, effettivamente, la parola - sia essa in forma scritta che orale - sia il mezzo tramite il quale tale vissuto può essere posto davanti agli occhi e riconsiderato. Appare del resto altrettanto evidente come difficoltà e carenze di tipo lessicale, sintattico o semantico (soprattutto nell’uso della forma scritta) possano inficiare l’efficacia del percorso di riflessione e rilettura.
Eppure, narrare il proprio vissuto scolastico - l’insieme delle proprie esperienze, dei ricordi che se ne hanno, delle emozioni e credenze che sono cresciute, legate ad esse - è la più importante delle ‘buone pratiche’ che possono accadere nella scuola. Innanzitutto perché l’azione di narrare un vissuto si associa sempre allo sviluppo della consapevolezza, alla presa di coscienza dell’originalità del singolo [ricordi quando ho nominato il traguardo dell’originale presenza nel contesto?] ed allo sviluppo della progettualità. L’operazione complessa della narrazione consente quindi di mettere in relazione il tempo presente (quello nel quale si svolge il cammino di ripercorrere i propri passi), il tempo passato (quello nel quale le esperienze ed i passi sono stati compiuti) ed il tempo futuro (quello nel quale le modificazioni indotte dalle riflessioni effettuate troveranno la loro realizzazione).
Appare anche interessante come un approccio simile consenta di ‘recuperare’ eventuali digressioni, errori e smarrimenti. Anche l’essere andati ‘fuori strada’, infatti, possiede la medesima dignità di essere narrato e quindi viene ricollocato all’interno del percorso di consapevolezza del singolo.
Come sarebbe bello recuperare i dispersi, in questo modo…
Oggi ti voglio appunto proporre un percorso di narrazione nel quale l’uso della sintassi linguistica non è del tutto fondamentale.
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