Buongiorno a te, in questo avvio della settimana che è il cuore dell’estate ✧
Uno dei professionisti che mi piace seguire su Medium è Ted Bauer; scrive di lavoro e di quella che è l’etica del lavoro nella nostra epoca. È un tema che mi interessa molto (complice anche la mia migrazione verso una professionalità più estesa ed autonoma), soprattutto per quanto riguarda la profonda connessione tra il mondo dello studio - alias ‘la scuola’, generalmente detta - e quello del post diploma o post laurea. Ricordo sempre, quando rifletto su questa connessione, il titolo di un convegno al quale partecipai moltissimi anni fa: “Gioco, Studio, Lavoro”. Fu un’immersione nelle tre connesse modalità di applicazione della razionalità umana, a seconda delle diverse età della vita.
[A ripensarci, credo che la mia svolta verso l’indagine neurolinguistica e il mio interesse per le tematiche orientative nella scuola siano nati proprio da quello che ascoltai in quelle giornate]
Insomma… Ted Bauer recentemente ha scritto due articoli (questo e questo), che mi hanno molto interrogato circa l’idea di studio che noi convogliamo, attraverso l’adesione a determinate scelte scolastiche, attraverso la nostra attività e soprattutto attraverso la nostra persona.
Voglio provare ad indagare l’analogia tra studio e lavoro per quanto concerne un aspetto particolare (che Bauer appunto prende in considerazione nei suoi due testi), che oltretutto mi sta particolarmente a cuore:
l’attitudine al pensiero riflessivo.
Ciò che mi colpisce dell’analisi di Bauer è il sottolineare con forza (dati alla mano, provenienti dalla sua attività di consulente ed osservatore del mondo del lavoro contemporaneo) la scarsa propensione ad incoraggiare il ‘pensiero critico’ da parte di molte compagnie e aziende. E quindi, l’inefficacia dal punto di vista dell’innovazione, in sostanza. In questi casi, lo scopo del (luogo di) lavoro è di svolgere i compiti che vengono assegnati. Punto.
Come se la priorità del consiglio di amministrazione, del ‘capo’, fosse di mantenere i dipendenti in uno stato costante di (sovra)occupazione. “Sono impegnatissimo”, “Non ho tempo per fare altro”...
L’analogia sta iniziando a funzionare…?
Vi è un altro aspetto che aggrava la situazione: il sovraimpegno (lo chiamerò così) non necessariamente coincide con il concetto di produttività. Se mi leggi da un po’, già sai quale sia la mia opinione sulla scuola intesa come ‘luogo della produttività’, ridicolo simulacro di una visione aziendalistica in stile anni Novanta (tipo Wall Street o Una donna in carriera, film, quest’ultimo, che comunque adoro!). In ogni caso, essere sovrastati dalla quantità delle cose da fare nemmeno conduce a raggiungere gli obiettivi che ci si era prefissi.
Qualche indizio?
Vogliamo parlare di attenzione? Di memoria? Di intelligenza emotiva? Della capacità comunicativa?
Si tratta, in sostanza, di rivedere la propria concezione di successo, di distinguere tra quello che viene chiamato deep work e shallow work; tra un impegno che sia focalizzato, di qualità, profondo e un banale ‘mettere giù la testa e riempire caselle’.
Continui a vederla, l’analogia?
Qualche giorno fa ne parlavo (in realtà, ci stavamo scrivendo messaggi veloci!) con la mia amica Giulia Lessi, docente di matematica al liceo (ma sì, la conosci… è @giuliale82 su IG). Lei aveva appena terminato di leggere l’ultimo di Colamedici-Gancitano, io mi accingevo ad iniziare il saggio di Francesca Coin. Non è una coincidenza che la riflessione sul lavoro irrompa così prepotentemente nelle nostre vite, da qualche anno a questa parte. Tutta colpa della pandemia? Ni. Francesca Coin dimostra come il percorso storico che ci ha condotti qui parta molto prima del 2020…
In addition, we need to get better at prioritizing where we focus our attention. We’ve gotten into the habit of treating everything as urgent and important, which can lead to increased stress and multitasking and diminish our effectiveness. Learning to focus on one thing at a time and moving through our tasks sequentially will still be the best way for most of us to produce our best work, even with advances in technology, she says.
(fonte)
Siamo sicuri, ad esempio, di esplicitare chiaramente la priorità delle azioni che chiediamo agli studenti?
Non dico a livello disciplinare (“ripassa la teoria prima di svolgere gli esercizi”), ma a livello di consiglio di classe, in una economia globale che tenga conto di tutte le discipline. E sì, anche in quinta superiore! Perché è anche possibile che il modo con il quale il ragazzo o la ragazza hanno imparato a gestire le priorità sia loro estremamente utile dopo qualche mese, nel mondo del lavoro.
La soluzione che il mondo delle grandi organizzazioni, il mondo del lavoro quindi, si è data viene chiamata cognitive learning.
Ma siamo noi!! Se non è la scuola ad essere il luogo primario del cognitive learning, chi potrebbe esserlo? Dovremmo andare a scoprirlo nei luoghi di lavoro? C’è davvero qualcosa che non va (e non solo nell'universo lavorativo) se le grandi compagnie internazionali stanno ‘scoprendo l’acqua calda’: il senso dell’apprendere e la relazione che esso ha con la produttività, cioè con il raggiungere i propri obiettivi.
Forse la scuola non lo ha testimoniato in modo così evidente, questo senso dell’apprendere?
Ma c’è di peggio… (al peggio non c’è mai limite, no?)
Nelle concezioni poco lungimiranti del lavoro - leggasi nelle compagnie che, negli ultimi 10-20 anni, hanno evidenziato crolli inattesi di produttività - l’efficacia nel raggiungimento degli obiettivi viene sempre (più o meno velatamente) messa in contrasto con flessibilità e pensiero riflessivo. Se miri ad un lavoro che possa essere in qualche modo flessibile, è perché sotto sotto non hai una gran voglia di lavorare e magari non produci poi un granché. Se passi del tempo a cercare strade alternative per risolvere un determinato problema, sotto sotto sei un gran pigrone e nemmeno un efficace componente del team.
Quanto ti risuona tutto ciò? (prima di decidere di insegnare, io ho lavorato qualche anno nella ricerca universitaria applicata, e ti assicuro che - a parte il publish or perish, nostro mantra quotidiano - farsi vedere dal caporeparto ‘con le mani in mano’ a leggere un articolo scientifico non era visto di buon occhio! Ma erano altri tempi, mi dirai, erano i ‘famosi’ anni Novanta…)
Chiudo con una provocazione finale.
Rallentiamo. E facciamo sì che sappiano rallentare anche i nostri studenti. Cerchiamo di convincere i colleghi del “busy busy busy-mood” che l’apprendimento ha bisogno di essere flessibile, che fermarsi per osservare un problema può non essere sempre sintomo di indolenza, e che se lavoriamo in classe per stimolare questa capacità nei ragazzi non lo facciamo perché siamo dei docenti pigri o scansafatiche.
E soprattutto, rispondiamo a tono quando ci verrà detto - ovviamente con sarcasmo e senso di superiorità - “I ragazzi si devono pur abituare alle richieste del mondo del lavoro! Non possiamo farli crescere nella bambagia!”.
Rispondiamo che, appunto, probabilmente e fortunatamente non sarà quello, ciò che troveranno nel mondo del lavoro fra qualche anno…
E infine, rispondiamo che testimoniare, insegnare ed assecondare un pensiero lento e riflessivo non è sinonimo di permissività. Tutt’altro.
Buona settimana a te!
Simona