Buongiorno ♥
{tengo innanzitutto a ricordarti che, poiché voglio che le mie Lettere siano una proposta culturale ‘sostenibile’ per chiunque sia coinvolto nella scuola e nell’educazione, se ti interessasse quello che qui trovi, ti basterà scrivermi e potrai avere il primo mese di abbonamento offerto da me}
In settimana mi sono trovata a consultare - per il progetto del Piccolo Dizionario sentimentale della Scuola e dell’Educazione - il volume del filosofo e logico W. Quine, testo che avevo anche ‘ritratto’ in fotografia ed utilizzato nella mail giornaliera inviata agli iscritti.
Eccolo!
Uno degli allievi di Quine fu Donald Davidson, filosofo dell’area linguistica che insegnò a Stanford, Princeton e Berkeley.
Perché questo preambolo accademico?
Perché Davidson è ‘padre’ di un principio che mi sembra potrebbe essere applicato in modo interessante in ogni nostra ora di lezione: il principio della carità interpretativa. Tale criterio nasce proprio dagli studi di Quine, condotti nell’ambito della traduzione:
“le asserzioni che appaiono inizialmente false dipendono con ogni probabilità da differenze di linguaggio nascoste”
L’idea dalla quale nasce il pensiero di Quine era che i significati delle parole siano comportamenti da interpretare, e non oggetti dati una volta per tutte. In quest’ottica, Quine affermava che la traduzione ‘migliore’ fosse quella che attribuiva all’autore - o parlante - della lingua da tradurre un insieme di atteggiamenti e di credenze quanto più simile possibile a quello dell’interprete.
Davidson riprese questo concetto e lo rese nell’affermare che il principio di carità interpretativa è il presupposto dell’interpretazione e di ogni comprensione. In base a quel principio, l’interprete assegna un livello di verità alle affermazioni del suo interlocutore. Contemporaneamente, egli riconosce un insieme di credenze condivise.
Il principio di carità interpretativa, perciò, sarebbe la risposta al bisogno di trovare il significato migliore possibile, tenendo conto di ciò che l’interlocutore afferma. La valutazione del sistema di credenze dell’interlocutore sarebbe, secondo Davidson, posteriore a tale azione.
Perché te ne parlo, oggi?
*avere il desiderio di interpretare la comprensione che lui/lei ha realizzato, prima (invece?) di giudicarne la correttezza*
Perché mi sono accorta che, da un paio di settimane, qui mi concentro spesso su un medesimo aspetto: il credito da assegnare ad uno studente. A priori. Prima di giudicare il livello di coerenza di quello che avrà da ‘offrirci’. Leggi: avere il desiderio di interpretare la comprensione che lui/lei ha realizzato, prima (invece?) di giudicarne la correttezza.
Proprio qualche settimana fa ti avevo raccontato, infatti, di quella lezione durante la quale mi era balenato il pensiero che il mio studente X, che stava esprimendo in modo tanto confuso e apparentemente scorretto il suo pensiero, avesse in realtà capito quel che c’era da capire. Credo che l’essermi seduta sul banco e avergli chiesto, con sincerità, di farmi seguire il suo percorso mentale sia stata la scelta vincente (e lo dico senza presunzione, perché va ad equilibrarsi con le centinaia di volte in cui non l’ho fatto).
Dopo aver riletto Quine e ripreso Davidson, mi dico che durante quell’ora di lezione ho messo in atto il principio di carità interpretativa con X.
Al mio studente ho infatti assegnato il mio stesso sistema di credenze (“voglio risolvere il problema che ho davanti e penso di farlo con il metodo grafico”) e ho dato per certo che egli avesse, poco o tanto, capito il punto della questione.
So bene che tutto quello che ti ho raccontato oggi potrebbe essere liquidato invocando l’empatia o la fiducia. Tuttavia, entrambe si muovono in un’area diversa dal principio di Davidson, che è invece strutturalmente linguistico. Empatia e fiducia possono (e spero che lo facciano, in qualsiasi scuola e classe!) ben descrivere il tono della nostra relazione con gli studenti, ma lo fanno ad un livello emozionale; ciò di cui parlava Davidson agisce a livello cognitivo.
Mi sembra che i due piani (come è giusto che sia) si integrino perfettamente e vi sia una relazione di causa-effetto:
se mi pongo in una tensione empatica con il mio studente, allora potrò anche decidere di realizzare il principio di carità interpretativa
Evidentemente, pur adottando un habitus empatico, posso decidere di non mettermi in una posizione ‘caritatevole’ (o non riuscire a farlo) e se non sono capace di empatia, non credo proprio riuscirei a sintonizzarmi sul desiderio di farsi comprendere che ha il mio studente.
Insomma… non è proprio così immediato attuare questo criterio!
(e se penso a me come mamma, mi dico che sono riuscita a realizzarlo molto più spesso in classe che non a casa, ahimè!)
Il Piccolo Calendario Sentimentale della Scuola e dell’Educazione procede il suo viaggio lungo questo mese di febbraio, grazie alle persone che hanno deciso di iscriversi al progetto.
Se vuoi conoscere più nel dettaglio il progetto, leggere il Prologo oppure una parola (di una giornata a caso di questi primi 12 giorni!), scrivimi!
Ma anche se puoi semplicemente farlo conoscere ad altri - docenti o famiglie - te ne sarò grata.
Buona settimana ♥
Davvero importante switchare sul cognitivo. A volte l’empatia sembra un po’ abusata.