“Ero seduta vicino a mia madre davanti al fuoco, e tra me e il fuoco c’era un vecchio schermo provvisto di piedi e guarnito di taffetà logoro. Il fuoco vi produceva delle piccole stelle di cui aumentavo lo scintillio strizzando gli occhi. Allora, a poco a poco, perdevo il filo delle frasi che mia madre leggeva; la sua voce mi gettava in una sorta di assopimento morale, nel quale mi era impossibile seguire qualsiasi idea”
(G. Sand, Histoire de ma vie, 2004)
{Ciao! Questo che stai per leggere è il sesto appuntamento del mio percorso di formazione sostenibile, dedicato alla Distrazione come risorsa. Ti accompagnerò, fino al termine del mese di agosto, nell’esplorazione di un concetto che troppo spesso siamo stati abituati ad inserire nella ‘lista dei cattivi’.
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Buongiorno a te ♡
Prendi quel brano di Georges Sand che ti ho riportato sopra e sostituisci qualche termine… che ne so… ‘madre’ con ‘insegnante’, ‘fuoco’ con ‘finestra-dalla-quale-si-vedono-gli-alberi-del-cortile’ e dimmi se quelle parole non potrebbero essere i pensieri di uno dei nostri studenti. Uno di quelli che si distraggono sempre, che cogliamo in flagranza di reato mentre noi siamo immersi nella spiegazione più imperdibile di sempre. È un po’ un delitto di lesa maestà, quello della distrazione (non soltanto quando si perpetra sui banchi di scuola). Sì, perché l’interlocutore sta espressamente dimostrando con i fatti che vi è qualcosa di più importante, per lui, di noi, di quello che stiamo dicendo, della nostra persona.
“[La distrazione] lascia intendere in modo abbastanza inequivocabile che ciò che accade nella nostra testa è ben più interessante di quello che essi dicono”
(D. Diderot, Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, 1754)
Mi domando se cambierebbe qualcosa, a livello di nostra reazione, se riuscissimo a non sentire tanto minata la nostra autorevolezza o autorità. Oppure se riuscissimo a valutare l’importanza - per l’interlocutore distratto - di quei suoi pensieri.
[specifico che declino, oggi come durante tutto questo percorso sulla distrazione, tale attitudine in direzione individuale: è l’azione del distrarsi da solo. Non con il compagno di banco, per intenderci]
Gaston Bachelard fu il teorico della rêverie, di quell’esperienza (non sorvegliata dalla coscienza) che, al pari del sogno (rêve), ci estrania dallo spazio e dal tempo presenti. Quando siamo distratti (nel modo che specificavo prima), quando i nostri studenti sono distratti, stiamo tutti vivendo un’esperienza di rêverie. Del resto, già Bergson lo disse: “l’Io che sogna è un Io distratto”. È proprio la mancata connessione con i sensi che caratterizza questa esperienza da quella che, a prima vista, potrebbe sembrare coincidente ad essa: la fantasticheria.
Quando i nostri studenti si distraggono in quel modo tanto irritante, (di solito) non stanno fantasticando su che cosa succederebbe se alla prof spuntasse un brufolo sul naso, ma sono proprio altrove. Piaget aveva per primo sottolineato la portata della fantasia (del gioco, del ‘fare finta che’) nel processo di sviluppo del bambino. La rêverie-distrazione si comporta invece un po’ all’opposto: è una regressione ad uno stato nel quale il confine tra intelletto e sensi è molto labile. Uno sorta di ritorno alla primissima infanzia. Rileggi un attimo il brano di Georges Sand e rifletti se non potrebbe descrivere altro che un soggetto in giovanissima età! Questo parziale distacco dai sensi ha fatto avvicinare la rêverie al sonnambulismo, infatti.
Insomma, ti confesso che cercherò ancor più di avere in mente tutto ciò, quando fisserò quel mio studente perennemente ‘imbambolato’ (si dice così anche nelle tue zone?) a fissare gli alti alberi del campo che si trova al di là del muro di recinzione della scuola!
Forse perché sono stata anch’io una bambina ‘sognante’ e sono tuttora un’adulta ‘rêveuse’; ma credo sia soprattutto perché non mi sento onnipotente, in qualità di insegnante, e penso sempre che vi sia qualcosa che mi sfugge, della persona che è il mio studente.
Ma non si tratta soltanto di questo. Cioè di un’attenzione umana, di un rispetto necessario, mi verrebbe da dire, non intaccato né sminuito dal fatto che io ho cinquant’anni e lui/lei ne ha tredici, oppure che io sono laureata e lui/lei nemmeno diplomato.
Ciò che mi porta ad apprezzare il semi-sonnambulismo sognante ha anche un risvolto professionale ed è collegato a quanto ti scrivevo qualche settimana fa, parlando di Poincaré, di Einstein e di intuizione.
Infatti, considero indispensabile analizzare la sorgente dalla quale nascono le idee matematiche o scientifiche che insegno, ben prima e ben di più che non trasmettere una serie di procedure alla portata di qualsiasi buon consultatore di manuali.
Conosci Jacques Hadamard? Il grandissimo matematico G.H. Hardy lo definì “la leggenda vivente della matematica”... e chi siamo noi per contraddirlo?
Vi è un breve (no, denso!) volumetto del nostro Jacques che mi accompagna da decenni: La psicologia dell’invenzione in campo matematico.
Oggi vorrei raccontarti che cosa io ho imparato sull’insegnamento, leggendolo.
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