Buon venerdì ✻
Qualche giorno fa ho vissuto un momento bellissimo: ho incontrato ‘dal vero’ due colleghe che finora conoscevo e frequentavo soltanto ‘attraverso lo schermo’ e la mail. Salutandoci ed augurandoci “buona estate” dopo la colazione consumata insieme, ci siamo dette che nessun algoritmo potrà mai sostituire il cuore dell’Uomo, che ti fa sentire affinità ed instaurare connessione in un percorso di riconoscimento che in origine è stato mediato da un like.
In compagnia di Silvia e Chiara (pur nella lentezza di un’afosa giornata di luglio), mi sono ritrovata a ridire a me stessa la potenza dell’impatto narrativo nella costruzione di un articolato percorso di orientamento. Parlando di libri e di film, guardandoli alla radice e non riducendoli a trama-contesto storico-stile, ci siamo raccontate quale inatteso crivello possa essere l’educazione al linguaggio, nella prospettiva di schiarire il proprio orizzonte. [E se Silvia è docente di Lettere (e ce l’aspettiamo, una consapevolezza simile), Chiara invece è mia collega di materia, il nostro terreno è la matematica (ed io esulto alla scoperta di persone che vedono nel numero e nella forma orizzonti di senso che sono - ahimè - esclusi dalla mera attitudine all’esercizio!)].
Sono felice di aver scoperto che, nel tripudio della partenza dei molteplici percorsi offerti da diverse agenzie formative ed aventi come traguardo l’orientamento, si stia illuminando anche ‘l’angolo buio’ della narrazione. Mi auguro soltanto che non ci si limiti ad essa come ‘specchietto per le allodole’ ma se ne esplorino tutte le angolature, trasformandola, di fatto, nello strumento della narratività. Soltanto così si riesce a chiudere il cerchio - anche dal punto di vista neurolinguistico - tra orientamento, linguaggi e narrazione.
Ti ricordo che, se volessi approfondire questa particolare declinazione dell’azione orientativa (nel primo come nel secondo grado), puoi iscriverti allo spazio di lavoro Linguaggio & Identità
Una citazione che ormai porto impressa nell’animo (e che alcune studentesse, un paio di anni fa, addirittura resero in una tavola di Arte) è, di Hannah Arendt
“La narrazione rivela il significato senza commettere l’errore di definirlo”
Nella masterclass che dedicai al Pensiero logico e pensiero narrativo - alla quale anche Silvia aveva partecipato e che aveva nei fatti varato il percorso di cui sopra - avevo voluto esplorare quali lontani confini esistessero tra narratività e discipline logico-scientifiche. Tutta la forza della distinzione tra significato e descrizione era allora emersa.
Perché tornare su questo aspetto, indagando l’ambito della cultura orientativa?
(ché, penso ne siamo tutti certi, orientare è un habitus, non la richiesta formale di un qualsivoglia sistema di formazione; ed è infatti questa la ragione per la quale ogni cultura orientativa è anche, di per sé, valutativa)
Rispondo dicendo che sia la narrazione che il linguaggio (nel senso di lavoro didattico di cesello che se ne può compiere, e che conduca quindi a metterne in luce pensiero combinatorio e flessibilità) sono generativi di uno stato dell’animo che poi, a sua volta, è il motore trainante dell’azione orientativa. Mi piace molto il termine anglosassone che lo definisce - awe - ma anche il ‘meravigliarsi’ di platonica, poi aristotelica ed infine dantesca memoria, non è da meno! Un senso del sublime, che è più intenso e descrittivo del ‘bello’.
Considero che sia la presa di coscienza del proprio senso del sublime (e in quel ‘proprio’ sta tutta la necessità di percorsi che siano tanto ampi da includere chiunque e tanto particolari da saper parlare ad ognuno) ad aprire le porte ad una riflessione attiva in ambito orientativo, da parte del soggetto che si orienta. Senza timore di sembrare reazionaria, azzardo affermare che i ‘nostri’ ragazzi e giovani siano ben poco educati a riconoscere il sublime-per-sé, distratti e confusi in un oceano di bello-per-tutti.
Oggi ti propongo, per la tua futura antologia dell’orientamento, un pensiero di una scienziata del Novecento, verso cui i movimenti ambientalisti attuali si sono sempre detti debitori. Rachel Carson scriveva:
“Se i dati (scientifici, NdT, cioè… mia!) sono i semi che in seguito saranno in grado di produrre conoscenza e saggezza, sono però le emozioni e le percezioni sensoriali a costituire il terreno fertile nel quale tali semi devono crescere”
Mi sembra che, spesso, nella progettazione e costruzione delle attività di orientamento, si ponga fin troppa attenzione ai dati, ai semi, senza curarsi granché del terreno. Come se uno studente fosse in grado di scegliere il seme (su quale base, poi?) e di porlo a dimora in un terreno non preparato ad accoglierlo.
Proseguendo con la metafora bucolica, l’aratro che si avvia al mattino sono i linguaggi e le analisi narrative sono il campo al tramonto.
Di seguito ti riporto le riflessioni ulteriori che si possono trarre dal brano della Carson.
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