Buongiorno e buona mattina lenta.
(anche se il mio pensiero va in modo particolare a tutti coloro che stanno sudando le ultime carte in vista di una delle prossime prove concorsuali… Che almeno questi tre minuti di lettura siano di sollievo e - perché no? - di ispirazione)
L’evidenza di una professione come la nostra che impone, per le regole del reclutamento (che pessimo termine, non trovi?), una estesa propensione non tanto allo studio e alla conoscenza - natura ineliminabile di ogni docente - ma alla necessità di sottoporsi a periodiche ‘indigestioni’ di nozioni, mi porta oggi a farmi qualche domanda.
In un’epoca - molto recente, a dire il vero - come quella presente, nella quale non pare più così scandaloso interrogarsi sul senso del lavoro e sulla nostra relazione rispetto ad esso*, mi chiedo allora che significato abbia quella natura ineliminabile di cui dicevo sopra.
[* si vedano, a semplice titolo esemplificativo, i recenti volumi di Colamedici-Gancitano e di Coin]
Sì, insomma… perché desideriamo continuare a studiare?
In realtà, una risposta a questa domanda già te l’avevo proposta in esordio a questo periodo di luglio-agosto delle Lettere ad un (giovane) docente. Dello studio come una delle possibili azioni contemplative, se ricordi, avevo infatti detto qui, eppure penso che qualcosa sia rimasto inespresso. Un qualcosa che rimanda, come scrivevo, alla
“inquietudine che è sana perché trascina verso orizzonti ed esplorazioni del Sé”
Del frammento mancante, ritrovo le tracce se torno a quella finenovecentesca filosofia della complessità (ricordi le volte in cui ti ho parlato di Morin?), che sono convinta definisca non soltanto il nostro tempo e la scuola che - suo malgrado, con resistenza, mi pare - lo abita, ma anche l’individuo.
Quando il filosofo francese suggerisce che la conoscenza sia
“costruzione di un oggetto e di un progetto nello stesso tempo interdisciplinare, polidisciplinare e transdisciplinare che permette di creare lo scambio, la collaborazione, la policompetenza”
(La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina, 1999)
non sta forse anche affermando che il concetto di sapere e quello di identità siano inscindibili?
Io risiedo fermamente in questa convinzione.
All’inizio della mia carriera potevo considerarlo uno spunto personale, ma averne poi incontrato i fondamenti teorici, averli approfonditi in questi ultimi anni, mi ha permesso di far quadrare il cerchio del mio ruolo professionale. E ciò che all’inizio avrebbe potuto essere non più di un ‘errore da principiante’ da correggere si è rivelato invece il punto di incontro tra bisogni diversi: il mio, di docente, quello degli studenti e quello di altri docenti come me, che hanno scoperto in questa visione post-moderna della scuola la risposta alle loro esigenze di senso.
Avere percepito una continuità tra sapere e identità ha generato due azioni. Necessarie entrambe.
Nella mia storia di docente, ha significato la ricerca e la sperimentazione di un nuovo paradigma per l’orientamento e per la valutazione (e posso affermare con immodestia e orgoglio di aver dato risposta a questa doppia tensione anni prima che diventassero temi alla moda!).
Nella mia storia di professionista in senso lato, ha significato il desiderio di ampliare le occasioni di espressione di quella certezza; la strada della formazione è stata l’ovvia manifestazione di un desiderio di ispirazione e di accompagnamento nei confronti di tutti coloro che, dall’interno della scuola, stavano (e stanno) percependo la necessità di un nuovo paradigma della conoscenza.
E allora anche io, anche i docenti che lavorano insieme a me, ma soprattutto anche gli studenti (i miei e i loro, a cascata), tutti stiamo mettendo in pratica una concezione molto più estesa e matura - complessa - del soggetto: un Io che conosce la realtà, che ama ricercare questa conoscenza e che quindi, contemporaneamente, conosce se stesso.
La svolta mi sembra netta; ed è non soltanto culturale, epistemologica, ma (oso? oso!) politica. Ha a che fare con l’immagine che la scuola fornisce di sé al ‘resto del mondo’, alle famiglie, alle difficoltà di comunicazione con esse; ha a che fare con il disagio scolastico e anche con la dispersione. Mi sembra evidente.
Che cosa significa decidere di assumere un atteggiamento complesso nelle relazioni che comportano uno scambio e una costruzione di conoscenza?
Innanzitutto, considerarle - appunto - relazioni (cioè relazioni umane) apre ad un ventaglio di possibilità inedite, all’interno stesso della scuola. Per questo motivo, la costruzione narrativa del Sé (chiamiamola pure orientamento…) deve impregnare di sé ogni attività didattica; per questo motivo, la valutazione merita di essere ripresa e valorizzata secondo una visione che tenga in considerazione le implicazioni e conseguenze sociali di un’età della complessità.
Chiudo con le parole di Mauro Ceruti (voce ‘italiana’ del pensiero di Morin), Abitare la complessità, Mimesis, 2020:
“Ecco perché raccogliere la sfida della complessità è una necessità del pensiero e soprattutto un imperativo etico, un imperativo di sopravvivenza. O vinciamo insieme o perdiamo insieme… Tutto è connesso. Tutto è in relazione. Siamo tutti sulla stessa barca”
Insomma, la natura ineliminabile (alla conoscenza) è appunto ineliminabile perché attiene alla propria identità, alla scoperta di essa. E chi non vorrebbe, giorno dopo giorno, conoscersi un pezzettino di più…?
Buona settimana e buoni pensieri ♧
Simona