Buon lunedì ♡
In quest’ultima settimana ho avuto l’occasione (almeno un paio di volte) di confrontarmi con altre persone, altri professionisti, riguardo al tema delle emozioni prevalenti che - attualmente - contraddistinguono i soggetti giovani e giovanissimi. Dagli ultimi anni della primaria fino ad una adolescenza in linea teorica già ben conclusa, tanto per intenderci. Se ne discuteva durante la chiacchierata - con torta, acqua e caffè annessi - in quel di Terre di mezzo (con la splendida Sabina!), ma ne parlavo anche con Silvia e Alessandro, prima di recarci ad avviare i nostri progetti futuri da Stefania, anima de La Sartoria Letteraria a Bresso.
Nel 2003, quando venne pubblicato, L’epoca delle passioni tristi costituì un evento - letterario e sociologico - di grande portata, che generò inedite riflessioni nel mondo della scuola e dell’educazione in generale. L’adolescenza stava iniziando ad essere percepita nella sua ‘coda’ anticipatoria, a comprendere non solo l’età della secondaria di primo grado ma spesso anche gli ultimi anni della primaria, appunto. Ma soprattutto veniva chiaramente - da parte del mondo clinico - associata ad essa l’evidenza di un diffuso stato d’animo: l’oscurità, l’annullarsi, persino una certa accidia divennero i colori mediante i quali ci risultava più comodo ed efficace descrivere l’adolescenza.
I giovani vivevano in uno stato di perenne sofferenza psichica e noi non ce ne eravamo (quasi) accorti!
Quasi una decina di anni dopo, il 2020, il primo lockdown e i “non ti sento, accendi il microfono!” su Meet parvero agire da conferma successiva della sconvolgente lettura psichiatrica operata da Miguel Benasayag e Gérard Schmit.
Abbiamo però capito di essere andati oltre.
(ti suggerisco il substack di Luca Gandini, Genitori instabili, che proprio ieri è apparso con la puntata Hikikomori…)
Non a caso, l’autore si è recentemente esposto con il suo Oltre le passioni tristi (scritto con quella Angélique del Rey - insegnante e filosofa - che ti avevo già citato, molti mesi fa, trattando della valutazione. (puoi ritrovare quel post qui sotto)
Eccole, le recenti parole di Benasayag:
«Una persona può essere fisicamente sola rimanendo al contempo pienamente in relazione, come un artigiano, un artista, uno che legge con passione o che ascolta la musica, tutti solitari e tuttavia in relazione. Il legame implica il contatto con gli strati profondi che strutturano il nostro essere come quello degli altri. Al contrario, la ricerca di intersoggettività a ogni costo ci fa stare per la maggior parte del tempo in una condizione di ‘separazione condivisa’»
Quello che manca è la relazione.
“Che novità!” potrebbe commentare ironicamente più d’uno...
Accetto il calare della scure di una tale ironia e rispondo domandando quanto spesso noi, gli adulti, produciamo, rivolta ai giovani, esperienza di relazione. Non (solo) valorizzare le loro belle amicizie, indurli ad uscire di casa oppure a staccarsi dallo smartphone, portarli a visitare città e musei…
Quanto spesso siamo - noi - testimonianza di relazione con la realtà?
Quando sono in classe (e “faccio cose” da insegnante, senza spacciarmi da amica/psicologa/mamma!) è assolutamente chiara, evidente e trasparente la stima che ho nei confronti di ciò che abita la mia esistenza?
Perché o stimi ciò che hai di fronte - cosa che accade se sei in vera relazione con esso - oppure ciò che comunichi è il tuo isolamento dal resto. Ciò che manifesti è il tuo desiderio di non incontrare questo ‘resto’. Peggio ancora, ciò che trasmetti è l’idea che il resto sia inutile, persino pericoloso.
Obiezione ⇩
“Se non ‘coccolo’ i miei studenti significa che sto comunicando un senso di pericolo?? Ma non scherziamo, su!”
La mia riposta ⇩
Punto 1. Stimare i propri studenti significa proprio il contrario di abbuonare loro qualsiasi richiesta.
Punto 2. Stimare un undici-dodici-...-ventiduenne significa avere accettato di implicarsi fino in fondo con lui/lei.
Punto 3. Stimare gli studenti significa lavorare per dimostrare che ciò che è il terreno condiviso tra noi e loro (le discipline, nulla di più ovvio…) merita di essere solcato. “Non ti fidi? Guarda, lo faccio io per prima. Seguimi. Dopo, giudicherai.”
Sono prospettive ovvie, nella scuola? NO… E lo sai benissimo, purtroppo, anche tu.
Non è questione di età anagrafica, di anzianità, di contesto: è questione di educazione. Di averla ricevuta, a nostra volta, oppure no. Di aver potuto fare esperienza di un fondo di positività esistente nella realtà, e di aver deciso di intraprendere una delle strade per comunicarlo: la scuola e l’insegnamento.
“Ma la mia disciplina si presta poco… Non insegno Italiano! Non ho a che fare con i testi degli autori; non li faccio parlare in classe su ciò che accade nel mondo; …” (devo continuare?)
L’ho già scritto molte volte ma vorrei ripetermi:
Che cosa rappresenta la tua disciplina per te?
Come l’hai incontrata? Quali risposte ti ha permesso di darti?
Che cosa consideri irrinunciabile di essa?
Che cosa vorresti che i tuoi studenti si portassero a casa?
Se non avessi tra le mani gli strumenti e linguaggi di (matematica/francese/arte/diritto/fondamenti di elettronica/…) perché ti sentiresti ‘di meno’?
Prova a rispondere a quelle domande e vedrai che MAI rischierai di rispondere con un generico e vuoto “serve nella vita”!
Essere in relazione con la realtà genera come conseguenza (o ne è conseguenza implicita):
entrare in relazione con la persona che ho di fronte,
prendersi la responsabilità di farlo,
accompagnarla nella sua vita e nelle sue scelte (cfr. orientamento) e nell’entrare in relazioni con altri (cfr. educazione all’affettività)
Non mi pare poco.
Buona settimana a te ♡
Io insegno italiano quindi per me è interessante pensare alle altre materie. Pensando alla mia esperienza personale da studentessa, mi sembra che traspaia quando una prof ha dietro una certa motivazione per la propria materia (non è che deve mettersi a fare "i discorsi").