Buon venerdì ✰
“Una delle poche benedizioni del vivere in un’età di angoscia è che siamo costretti a diventare consapevoli di noi stessi”
(R. May, L’uomo alla ricerca di sé, 1953)
Nel testo che ti ho citato, lo psicoterapeuta statunitense - sulla base della sua esperienza clinica, come di quella di psichiatri e psicologi a lui contemporanei - assegnava al senso di vuoto la causa dell’angoscia del soggetto.
Sono trascorsi settant’anni dalla pubblicazione del volume, e mi sembra di poter riconoscere espressioni di questo smarrimento anche nei nostri studenti e giovani, acuito - come abbiamo modo di constatare nelle classi e a partire dalle manifestazioni pubbliche giovanili - da quella che ormai è stata definita ecoansia (benché interpretabile secondo canoni diversi, si veda il recente intervento di P. Crepet).
“Per fortuna ogni generazione ha le sue ansie, nel senso che senza ansia non si va da nessuna parte, non s’inventa nulla. L’ansia non è una patologia che necessariamente ti blocca. Borges parlava dell’ansia del poeta, che in sé è anche creativa e nasce, appunto, da una preoccupazione. Chi non ha avuto preoccupazioni? Esistono forse generazioni che non le hanno mai avute?”
Ho trovato interessante, nella lettura di L’uomo alla ricerca di sé, osservare come ciò che desta angoscia - individuale e quindi, di riflesso, sociale - possa variare, nel corso delle epoche. I giovani attuali (o, come suggerisce Crepet, i loro genitori) non vivono forse più l’ansia per una chiamata alle armi o per una guerra che si presenti fuori dall’uscio della propria abitazione. Penso, ad esempio, che oggi sia molto ridotto il ruolo di ciò che May definiva trainante agli inizi del secolo scorso, e cioè la difficoltà del soggetto ad accettare il lato pulsionale della vita (non dimentichiamo la rivoluzione portata da Freud!) e il conseguente conflitto tra istinti individuali e tabù sociali.
All’uscita della Grande Guerra, il filosofo e psicoanalista austriaco Otto Rank individuò invece nel senso di colpa e di inadeguatezza le radici del malessere individuale.
Negli anni Trenta, la psicoanalista tedesca Karen Horney (autrice di un rapporto che affermò la relazione tra psichismo individuale e condizioni socioculturali) mise in evidenza l’ostilità tra individui e gruppi, connessa con l’emergere di un senso di competizione degli uni sugli altri.
Eppure, il senso di vuoto rimane. Anche oggi.
Noi spesso questi giovani li definiamo apatici o indifferenti, mossi a nulla o da nulla.
“L’apatia e l’indifferenza sono anche difese contro l’angoscia. Quando una persona deve di continuo fronteggiare pericoli che è impotente a vincere, la sua ultima linea di difesa è quella di evitare persino di avvertire i pericoli”
(R. May, ibid.)
Forse, come suggerisce Crepet, la scuola dovrebbe rendere più esplicito il potenziale di conversione che possiede ogni crisi, lavorando nelle diverse discipline in modo da consentire al singolo di dare voce a ciò che lo opprime.
Ma non si tratta soltanto di esprimere un negativo, l’oppressione percepita; anche portare alla luce ciò che abita nel Sé è una delle forme di conversione dal silenzio alla voce.
E questo, sono le attività globalmente dette orientative della scuola a poterlo fare.
La portata - e potenza - delle riflessioni sulla consapevolezza identitaria, prima, e dei lavori che sulla base di quelle si possono progettare nelle classi, sta tutta nella possibilità di accompagnare gli studenti a fare pace con le due possibili (ed inconsapevoli per il soggetto che le manifesta) immagini di sé, che lo stesso May evoca.
Vi è l’individuo ‘endodiretto’, che ha assimilato fortemente le norme che gli sono state insegnate, e le manifesta con forti ambizioni, per quanto esse siano derivate - in ultima analisi - dall’esterno.
Leggendo questa descrizione, ho proprio visualizzato i ‘miei’ studenti che, nel momento della scelta per la scuola superiore, parlano per interposta persona, adducendo le motivazioni assimilate, negli anni, dai loro genitori.
Vi è poi l’individuo ‘eterodiretto’, il quale non cerca tanto di emergere quanto di adattarsi. May lo definisce un individuo “con il radar sulla testa”, che gli dice di continuo ciò che gli altri si aspettano da lui. Motivazioni e direttive, evidentemente, sono tratte dagli altri: è un soggetto che non è in grado di scegliere, ma solo di rispondere.
Trovo che questa seconda descrizione, invece, si adatti bene a quegli alunni che, contrariamente ai primi, non manifestano una forza interiore che li indirizza verso una certa scelta. Questi ultimi appaiono nettamente dimessi, quasi rassegnati, e giungono ad affermare onestamente di non saper scegliere e, se messi alle strette, di lasciare che siano altri a farlo per loro.
L’attività che ti propongo oggi costituisce un continuum con il ‘gioco dell’identità’ (che fa parte del percorso di formazione della SdV#3, Ed io, che sono?) e con il percorso didattico che ti avevo illustrato qui:
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