Buon lunedì (sera, ormai) ♡
“Il prigioniero in cella è lasciato solo con i suoi pensieri e in un certo senso gode della libertà di pensare ai fatti suoi, nelle aule c’è un maestro che né i bambini né le famiglie hanno scelto, il quale si prende i ragazzi e li abitua a ripetere ciò che egli dice, premiando quelli che meglio si adeguano. Ai bambini comandano tutti e quindi lui si sente a posto: i genitori a casa, il prete in chiesa, il maestro a scuola, poi comanderà il dirigente al partito o al sindacato, il sergente al soldato e infine il padrone in fabbrica. Cresciuto uomo così, si rifarà comandando alla moglie e ai figli e allungherà la catena, che nessuno osa spezzare perché ognuno di noi tende a diventare secondino”
Questo scriveva Mario Lodi nel 1970, in Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica. Molto è cambiato, moltissimo. Leggere del “dirigente al partito o al sindacato” fa sorridere; in chiesa non ci si va nemmeno più e devo tornare con la memoria ai racconti di mio papà per ricordare un contesto in cui la parola “sergente” avesse significato.
Eppure, un sottile senso di disagio mi impedisce di allargarlo, quel possibile sorriso.
Non è forse vero che - non sempre, certo… ma spesso, sì, concedimelo - la scuola premia coloro i quali meglio si adeguano a ripetere ciò che l’insegnante ha detto in precedenza?
In passato mi ero qui interrogata sul valore della domanda (leggi: verifica o interrogazione che sia). Le domande che in classe poniamo - che sono poi quelle sulla base delle quali andremo a costruire la nostra valutazione - quanto spazio lasciano alla novità?
Quante volte io ho costruito una struttura di domanda desiderando di essere sorpresa io stessa dalla risposta?
Quanto li abbiamo educati (sin dalla I classe della primaria), i bambini-futuri adulti, a cercare il proprio valore nell’invenzione originale e non nella ripetizione pedissequa?
La sorgente di una cultura della performance emerge anche da questo, credo. Dall’orgoglio tronfio di sentire ripetere ciò che abbiamo tramandato, dall’ascoltare riproposti durante l’interrogazione gli stessi aneddoti che avevamo regalato a lezione, dall’entusiasmarci per la precisione espressa dallo studente.
Adesso non può che venirmi in mente il fisico Werner Heisenberg; in Fisica e filosofia egli si esprime con le seguenti parole:
“Questa intrinseca incertezza del significato della parola è stata naturalmente riconosciuta assai presto e ha portato alla necessità delle definizioni, o - coem indica la parola “definizione” - a stabilire dei limiti che determinino dove la parola può essere usata e dove no. Ma le definizioni possono venir date solo con l’aiuto di altri concetti e così è necessario appoggiarsi ad alcuni concetti come sono, non analizzati e non definiti”
Ah… il peccato originale dell’ambiguità delle parole… (con buona pace della passione di Calvino per l’esattezza!). Ecco, ho la sensazione che chi insegna dovrebbe ricordare sempre l’incertezza - e quindi la poesia - del terreno su cui poggia i suoi piedi.
Un abbraccio e buona settimana ♡
Credo che questo discorso si leghi bene anche con la reticenza ad alzare la mano per fare una domanda o ammettere di non aver capito. Una domanda o un’osservazione con un certo senso critico sarebbe una grande testimonianza dell’attenzione del ragazzo in classe e del fatto che la lezione abbia stimolato un ragionamento.