Buonasera a te ✰ (oggi arrivo un po’ tardi, lo so, ma volevo rispettare questo nostro appuntamento anche se le cose si affastellano un pochino tanto una sopra l’altra)
L’appuntamento di oggi appartiene alla sezione Cosmografie.
Come sempre, ti ringrazio per accogliermi nella tua casella di posta e per dedicarmi qualche minuto della tua attenzione.
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«Un impossibile verosimile è preferibile ad un possibile inverosimile»
(Aristotele)
La citazione di Aristotele mi insegue - forse sarebbe più corretto dire “mi incanta” - da un paio di decenni, da quando in sostanza ho capito che non mi sarei più accontentata dei confini che la vulgata comune assegnava alle hard sciences (matematica e scienze tutte). Men che meno mi sarei sentita da essi definita nello svolgimento della mia professione: insegnarle, quella matematica e quelle scienze tutte, a dei preadolescenti.
Dall’incontro con la meraviglia incarnata da quell’incredibile testo che è la Poetica, dunque, nacque la mia decisione di chiamare a raccolta le armi della narrazione - e delle strutture narrative - per rendere lo studio e l’apprendimento di quelle ‘ostiche discipline’ un po’ più sensato per i giovani e giovanissimi.
Come racconto sempre, declinare la narrazione su discipline non apparentemente definite dal pensiero narrativo (e su quell’avverbio potrei rimanere pagine e pagine…) NON SIGNIFICA “raccontare la vita di Pitagora” oppure “l’aneddoto di Archimede e della corona di Gerone”. Lasciare che la narrazione e le sue strutture siano libere di irrompere nel terreno della matematica o della fisica o della biologia significa invece - semplicemente - assegnare priorità assoluta all’argomentazione. È infatti l’accompagnare gli studenti nella fatica del doversi destreggiare all’interno del testo (in qualsiasi linguaggio, formale o naturale, esso sia scritto) che pone le basi del pensiero critico. Oltre che della comprensione del testo medesimo.
Sono sempre stata un’insegnante (… sono sempre stata una persona!) molto devota alla parola, in classe. Non soltanto la mia, beninteso. Durante le mie lezioni si parla tanto, tantissimo. La matematica, così come tutte le altre possibilità che l’umanità si è data (o ha trovato) di descrivere la realtà, è fatta innanzitutto di parole. Esse possono anche, per comodità, essere poi tradotte in simboli, ma la sostanza non cambia.
Che cos’è una dimostrazione se non un racconto essenziale, che inizia con un prologo e termina con una conclusione?
Come mai dovrebbero esistere centinaia di dimostrazioni del teorema di Pitagora? Non ne sarebbe bastata solamente una? A questo rispondo: “come mai dovrebbero esistere versioni diverse di un medesimo evento?”. Dipende da chi lo racconta, no? Ecco, la stessa risposta vale per le dimostrazioni del teorema: dipende da chi lo racconta.
Ho sempre pensato che il mio ruolo, nella scuola, fosse di dare la possibilità, a tutti i ragazzi e le ragazze che mi si sono succeduti davanti, di raccontare la propria versione della storia. Di attestare, in un modo personale ed originale, la realtà matematica che avevano di fronte. Di testimoniarla in modo unico. Ognuno e ognuna di loro.
Soltanto la capacità di usare efficacemente la parola ci consente di essere testimoni credibili di quanto è accaduto davanti ai nostri occhi. A volte, siamo in grado di giocarci così bene, con la parola, che riusciamo persino ad imporre un “impossibile verosimile” alle orecchie dell’interlocutore. Con la parola si inganna, anche, del resto; si mente.
Per questa ragione credo che la ricerca della verosimiglianza sia il ruolo più importante che possiamo svolgere attraverso la scuola, l’istruzione, la cultura. In definitiva, la verità non è poi il fine ultimo di tutta la faccenda… Quante verità ristrette sono state - dal tempo, dalle culture successive - messe alla prova e, alla fine, demolite? Questo non ha affatto minato il proprio dell’Uomo, che è l’esercizio degli strumenti della ragione (che poi sono gli strumenti del discorso).
Spesso sento il coro delle lamentazioni, da parte dei colleghi: “non sanno ragionare”, “accettano tutto acriticamente”, “sono troppo piccoli per avere senso critico”, “non sanno argomentare”. A me sembra che siano semplicemente studenti ai quali non è stato concesso lo spazio sufficiente per discorrere, e per discorrere degli argomenti incontrati a scuola. È uno spazio che è anche un tempo: il tempo che ci prendiamo in classe, ogniqualvolta decidiamo di dimenticarci dell’ottusa scansione che abbiamo appuntato all’inizio della nostra agenda annuale.
Creare discorso è la più alta delle competenze di H. sapiens. Lo aveva ben (più che) intuìto il suddetto Aristotele, definendoci ‘animali del logos’; lo ribadiscono più di duemila anni dopo la neurolinguistica e la psicologia evoluzionistica.
Insegnando a tessere il filo del discorso - anche se lo facciamo utilizzando x, y, equazioni ed integrali - noi rendiamo certi i dodici-diciannovenni che abbiamo di fronte che esiste un legame tra loro e la realtà. E che si tratta di un legame ‘bello e giusto’, perché mette in connessione l’aspetto più intimo del loro essere - i loro pensieri - con le ‘cose’ della realtà, che resteranno sempre separate da quei pensieri.
Penserai dunque che oggi voglia parlarti della Poetica o dell’Organon o di qualcuna delle altre mille opere di Aristotele! No.
Oggi voglio invece presentarti due titoli che taluni direbbero di indegno utilizzo nelle lezioni oltre la scuola primaria e che, invece, ho verificato costituiscano entrambi una meravigliosa ‘palestra di argomentazione’ nella scuola secondaria.
Se ti interessa, puoi seguirmi nelle prossime righe…
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