Buon inizio di settimana a te ♡
Ricordi il titolo della puntata di lunedì scorso?
L’avevo chiusa così:
Non puoi vincere il premio Nobel facendo quello che ti dicono di fare
Oggi voglio riprendere il tema (non poco sollecitata, devo dire, sia dalla odierna newsletter di Simona Sessini che dalla lunga riflessione scambiata su Instagram con Bruna), affrontandolo dall’altro ingresso:
quanto può incidere, sulla motivazione al lavoro, il contesto nel quale decidi di porti?
Intendo con il termine “contesto” sia una realtà concreta, tangibile, che un panorama mentale.
Nel 1924, un tal Adriano Olivetti entra a far parte dell’azienda di famiglia (avviata a inizio secolo ai piedi delle Alpi), con la qualifica di addetto alla produzione nella catena di montaggio.
Adriano si era laureato in Ingegneria, ma il suo vissuto è forse più importante per comprendere ciò che sarebbe accaduto poi. Aveva lavorato come operaio per tutta l’estate dei suoi quattordici anni, aveva soggiornato negli USA per studiare le caratteristiche delle aziende di successo, era un appassionato cultore di arte e letteratura.
Appena ebbe messo piede in azienda, ciò che lo colpì - in senso negativo - era una certa disumanità delle condizioni di lavoro dei ‘suoi’ operai. Del tutto avulsi dal contesto nel quale si trovavano, sia dal punto di vista produttivo che da quello geografico (chi di loro si rendeva conto delle cime alpine che si trovavano ad un passo?), essi rischiavano di alienarsi in un lavoro ripetitivo e senza prospettive.
Il timore di Adriano Olivetti era che essi potessero smettere di pensare.
Egli diede perciò incarico di costruire nuovi stabilimenti, a Ivrea, che fossero completamente in vetro, in modo da permettere a tutti i lavoratori di godere della vista delle montagne, ma anche agli ‘esterni’ di ammirare il lavoro che l’azienda compiva e che era tanto prezioso per la comunità.
[la fabbrica della Olivetti a Pozzuoli, costruita in seguito, e con vista mare, diverrà poi la più produttiva del Mezzogiorno!]
Inoltre, Adriano ampliò la pausa-pranzo, fino a renderla di due ore; l’auspicio era che gli operai avessero il tempo non solo di ristorarsi fisicamente, ma anche di nutrirsi culturalmente: la Olivetti creò una delle prime biblioteche aziendali introdotte in Italia e l’azienda proponeva anche incontri con artisti e autori diversi.
Un’ora sottratta alla produzione, un’ora per ritrovare la propria umanità.
Lo sapevi che la prima calcolatrice elettrica italiana nacque da un operaio che aveva voluto ‘portarsi a casa il lavoro’ nel finesettimana, per continuare a rifletterci su, e che - per questo deferito alla dirigenza dai colleghi - non solo non era stato sanzionato da Olivetti ma era stato messo a capo del processo di produzione che avrebbe condotto a quell’innovativo articolo…?
I contesti lavorativi che funzionano al massimo sono quelli in cui ciascun essere umano è messo nella condizione di poter esprimere il proprio potenziale e mettere a frutto il proprio desiderio di ricerca e sperimentazione
(Anna Granata, Da piccolo ero un genio)
Hai capito dove mi sta conducendo questo discorso, vero?
Noi docenti siamo proprio lì, sul crinale.
Da un lato, spesso - non sempre, ma spesso - incastonati in un contesto che più rigido non si può:
colleghi poco collaborativi
le note del “si è sempre fatto così” che risuonano in aula docenti
dirigenti che decidono di importare da un altrove poco definito schemi e modelli di lavoro che magari tu svolgi con efficacia da anni nelle tue classi
una totale assenza di tempo destinato (istituzionalmente destinato, mi verrebbe da dire) alla crescita culturale personale
Il risultato? Assenza di motivazione, assenza di ricerca. E la burocrazia - con tutti i suoi corollari - prende il sopravvento.
Dall’altro lato, ci sono i nostri studenti e le nostre studentesse. Quanto sarebbe facile - quasi vendicativo - riproporre su di essi il medesimo modello che vediamo agire su di noi:
verifiche ‘come se non ci fosse un domani’
esercizi in batteria, per addestrare, per non farci sfigurare nelle prove comuni, per non avere ansie dopo le prove Invalsi
uno stile di insegnamento che non preveda l’interpretazione del singolo studente, cioè che veda nella domanda una fastidiosa scocciatura
una totale assenza di attività didattiche volte a sperimentare l’elaborazione di un giudizio critico sulle cose
Sta a noi decidere come agire.
Sta a noi scegliere di temere che i nostri studenti non riescano più a pensare.
Sta a noi decidere se smettere di pensare, come professionisti.
Un abbraccio e buona settimana a te ♡