“Assai antica è l’ira dei dabbene per la letteratura”
(Giorgio Manganelli)
Buongiorno e buon inizio di settimana ✲
Martedì scorso scrivevo di estetica ed etica - in questo rigoroso ordine sequenziale! - dell’apprendimento.
Puoi ritrovare direttamente il contenuto di quell’articolo qui:
Ieri, invece, ho avuto una lunga ed interessantissima conversazione su Instagram con Marta, docente di scuola superiore, sul medesimo tema. Ci siamo volute interrogare su che cosa, in definitiva, tenga immobilizzati gli adolescenti ad un blocco di partenza fatto di credenze (sul proprio futuro, sul proprio apprendere, sul concetto di lavoro) e di disillusioni. La cui conseguenza è un crogiolarsi all’interno di una gabbia dorata che ne anestetizza desideri e azioni. Marta, molto acutamente, sottolineava come essi dimostrino di (voler) ritrarsi dal mondo, senza nemmeno averlo conosciuto.
Ovviamente, una simile recessione - nella concretezza della pratica didattica - assume le forme ormai consolidate e note di un disinteresse per la fatica di un impegno, di una mancanza di volontà nell’iniziarlo, di un erigere il vessillo della mancanza di autostima per giustificare l’immobilismo.
Questa è stata una faccia della mia domenica.
L’altra faccia, invece, è stata l’e-mail che ho ricevuto da un mio ex-studente (ormai ultra-ventenne). Bravo ragazzo, bravo studente, nessun anno perso etc. Ebbene, S. ha deciso di sospendere per un anno il corso universitario al quale si era iscritto. Motivo: agire, durante quest’anno, in modo da capire se la sua passione (e il suo talento, aggiungo) ha gli estremi per potersi trasformare in una futura fonte di reddito. Nella corrispondenza periodica che io e S. ci siamo scambiati, lungo tutti i suoi anni di liceo e di una triennale adesso ‘congelata’, ho sempre scorto un velo opaco di apatia e disinteresse nelle sue parole. Disinteresse nei confronti delle discipline che studiava, motivazione minima verso l’impegno personale. Per quanto, paradossalmente, gli esiti fossero sempre buoni o ottimi. Una sorta di dismorfia cognitiva, potrei chiamarla. Poi, l’iscrizione al corso di laurea, non perché la famiglia lo ‘obbligasse’, ma perché - ancora una volta - S. si percepiva in un vicolo cieco, la cui unica possibilità di uscita era l’adeguarsi ad una storia di apprendimento che lo vedeva, tutto sommato, ‘vincente’ nonché la necessità di procrastinare il momento in cui avrebbe dovuto dire “io”.
Poi, circa sei mesi fa, il tenore delle ‘lettere’ e dei messaggi whatsapp di S. mutò forma. Iniziò a raccontarmi degli studi che aveva iniziato ad affrontare, in autonomia, per dare più sostanza al suo talento artistico (che veniva espresso solo parzialmente nel percorso di studi universitari che aveva scelto). Per la prima volta, in anni, mi è sembrato di rivedere il ragazzino che avevo conosciuto io alle medie: entusiasta, appassionato di Epica e di Arte, coinvolto negli studi. Brillante e fiducioso.
Ma non finisce qui.
L’e-mail che ho ricevuto ieri da S. aveva, però, un timbro di amarezza. Egli aveva appena scoperto che uno dei suoi ‘storici’ amici andava ridicolizzando con altri la sua decisione di orientare la propria vita verso una professione probabilmente da svolgersi come figura autonoma, perdipiù associata all’ambito artistico. “Io sì che sono impegnato, non certo lui che nemmeno va in università! E poi, che cosa crede di fare, senza una laurea?”.
Non so se la mia risposta abbia lenito in qualche modo quell’amarezza. È vero che ho trent’anni più di lui ed è vero che la laurea l’ho archiviata da tempo, tuttavia la scelta - professionale e di vita - che ho ultimamente deciso di compiere ha ricevuto, da parte di molti, quegli stessi commenti.
Sostituisci il binomio università-casa con quello scuola-studio e il concetto di laurea con quello di ‘posto fisso’ e ci siamo.
Rispetto a S., l’immobilismo non l’ho sperimentato dentro ai miei studi giovanili, ma in un sistema-scuola al quale avrei potuto serenamente adattarmi.
Come S., ad un certo punto ho deciso di tornare a ‘risplendere’.
Come S., ho ricevuto tanti giudizi che evocavano la necessità di non confondere una passione (nel mio caso, la ricerca didattica e la scrittura, invece della pittura) con il lavoro.
Ma è qui, a questo punto, che se mai l’asino volasse, allora cascherebbe. E qui è la ragione per la quale ho sentito risuonare l’e-mail di S. come la conversazione con Marta.
Come possiamo accompagnare S., il suo invidioso (o forse solo un po’ ‘provincialotto’) amico, gli altri studenti che abbiamo, ed anche noi stessi, a percepire il tempo che ancora deve venire come una possibilità che chiede l’azione?
Non sto dicendo che chi ha deciso di laurearsi, e si sente coinvolto da ciò che sta studiando, non stia esercitando l’azione e non abbia un’immagine di speranza per il proprio futuro (e per quello di tutti).
Penso che sia appunto qui il nodo della questione.
Avere un’immagine di speranza per il proprio futuro e per quello di tutti.
Un’immagine che sostenga anche le scelte più ardite o impopolari; un’immagine che si accompagni al rischio di esplorare nuove vie; un’immagine - più di tutto - che faccia alzarsi dal letto con le maniche già rimboccate (invece di tramutarsi in una lagna continua, a volte eco dei discorsi che si tengono in famiglia, nei confronti dei professori che non ricevono, delle valutazioni che non compaiono, delle competenze che non vengono riconosciute).
Un’immagine nella quale il lavoro non sia la punizione afflitta da una vita beffarda, il cui solo contraltare sia una remunerazione a molti zeri.
In una immagine che sia speranza per tutti, il lavoro è un modo, adulto, di esprimere sé: valori, angosce, dubbi e desideri. Un modo che non sappia di beffa ma di traguardo.
Dove è allora la tensione a creare un futuro magari incerto (soprattutto dal punto di vista economico!) ma buono per sé e per gli altri?
Dove è la scelta di rischiare, di partecipare ad una gita invece di stare a casa a giocare alla Play, oppure di iscriversi ad un concorso per opere prime?
Dove è la radice della scuola (e sto pensando all’etimologia della parola) come luogo per l’esplorazione di sé?
Dove è lo studio come diritto e non come dovere, appunto?
Che cosa si è perso per strada e che porta a pensare che la vita professionale di un artista, ad esempio, non sia quotidianamente immersa nello studio? (si veda la newsletter di Austin Kleon, a questo proposito!)
Ieri, in risposta alla mia storia su Instagram, Sara evocava il “testa bassa e studia!” che noi stessi (io, mai, lo devo confessare…) o le famiglie rivolgiamo ai ragazzi e alle ragazze. Che poi, una volta o due può anche scappare… Ma sappiamo benissimo come per alcuni dei nostri colleghi e per molte delle famiglie dei nostri studenti quell’espressione indichi il metodo del vivere.
Penso sia per questo motivo che accada poi che un poco-più-che-ventenne si esprima come un quarantenne degli anni Sessanta, ignorando - povero lui e, forse, colpevoli anche gli adulti che non l’hanno mai accompagnato a leggere la società post-moderna -la morte e avvenuta sepoltura delle istanze neoliberiste e performative di scuola e società attuali.
Manganelli aveva visto bene e lungo!
(ci terrei a sapere che cosa pensi di quello che oggi ti ho a lungo raccontato; rispondi a questa e-mail e ti risponderò certamente!)
Buona settimana ✲