“Il mondo di cui abbiamo fatto esperienza diventa una parte integrante del Sé che agisce e patisce un’esperienza ulteriore. Nella loro occorrenza fisica, cose ed eventi esperiti passano e svaniscono. Ma qualcosa del loro significato e del loro valore si conserva come parte integrante del Sé”
(J. Dewey, Democrazia e educazione, 2004)
Buon venerdì ✰
Questa settimana è stata per me particolarmente interessante. Ed anche commovente, ti dirò. Ho svolto la prima parte di un percorso di formazione sulla didattica orientativa presso un Istituto Comprensivo (sì, Vale e Valeria… sto parlando di voi!). I due aggettivi che ho speso qualche riga sopra per i quattro pomeriggi - oggi, l’ultimo - derivano dal fatto che, come sappiamo bene, ogni volta che sei obbligato a dare le ragioni di un tuo giudizio, quest’ultimo si ridefinisce ancor meglio.
È la potenza delle narrazioni, delle storie; di queste bizzarre invenzioni della mente umana, adatte a introdurre ordine laddove era soltanto caos.
Non dico che fosse un ammasso indistinto, l’insieme delle idee che - nella mia previsione - avrei voluto raccontare ai docenti, ma sicuramente posso dire oggi di aver scoperto sfumature sulle quali ancora non mi ero soffermata. In uno degli incontri mi ero proprio riferita al discorso come oggetto della comunicazione che nasce esclusivamente dal connubio tra due soggetti: il parlante e l’interlocutore. Solo i discorsi chiariscono il messaggio, a chi lo sta ricevendo ma anche a chi lo sta proponendo.
Alla visione narrativa dell’orientamento (ma perché?... ne esiste forse un’altra?) - nonché orientativa della narrazione! - potremo anche non essere pronti, preparati o dedicati, ma è indubbio che il nostro ruolo sia sempre aiutare gli studenti a mettere in ordine ciò che ‘diamo loro in pasto’, che è la versione-base (l’entry level, come si direbbe in altri ambiti) dell’accompagnarli a mettere in ordine loro stessi. Mi è piaciuto molto vedere condiviso, all’interno del gruppo con il quale ho lavorato durante la settimana, il concetto di orientamento per la vita o auto-orientamento. Non a caso, il punto cruciale del percorso è stata la contiguità concettuale tra orientamento, linguaggi e identità. Tre indicatori potenti.
Ogni volta che mi trovo a tornare sui passi del sentiero che è aperto da quei tre cartelli, che puntano nella stessa direzione, mi torna in mente il testo di Tim Ingold, Antropologia come educazione. Perché sempre mi ritrovo a pensare che, se fossi stato l’autore, avrei invertito la posizione dei termini e avrei scelto come titolo Educazione come antropologia. Del resto, Ingold è un antropologo e io sono un’insegnante!
Perché avrei applicato la commutazione lessicale? Per la stessa ragione che scrivevo nel post di martedì: educare è rimettere l’umano al centro.
Nello svolgersi delle sue argomentazioni, Ingold cita le azioni che costituiscono l’umanità dell’educazione (o l’educabilità dell’Uomo… ormai hai capito il gioco!). E mi sorprendo a ritrovare alcuni dei punti che abbiamo - i corsisti ed io - affrontato in settimana:
ascoltare attivamente
prendersi cura delle persone e delle cose
saper aspettare
essere presenti a se stessi
procedere insieme ad altri
avere delle aspirazioni
Abbiamo parlato di orientamento come cura, di intenzionalità nell’uso dei linguaggi, della differenza tra sogno, desiderio e ideale, del valore della distanza, del concetto di presenza… È l’Uomo, è l’essere umano che trae sostanza da quelle azioni.
E noi docenti traiamo la sostanza della nostra professione.
Oggi vorrei parlarti di che cosa sia l’attenzione nell’educazione e di come si tratti di una dimensione che dovremmo abituarci a costeggiare, proprio in qualità di docenti
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