“È più facile giudicare la mente umana dalle sue domande che non dalle sue risposte”
(Pierre-Marc-Gaston de Lévis, 1764-1830)
Aspetta, aspetta… Mi sono appena accorta che questa di oggi è la Lettera n.52! Questo significa che la sezione originaria delle Lettere ad un (giovane) docente (la missiva del lunedì) compie un anno! E infatti è il 6 febbraio 2023 che questa newsletter ha visto la luce!
Be’, ma allora come potrei non offrire qualche caffè, brioche o cornetto?
E allora…
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Che cosa ne dici..?
Ascolta… che cos’è l’ultima cosa che ho scritto? Ma anche questa che stai leggendo…
È una domanda, sì.
Non riesco nemmeno ad immaginare un’ora - ma che cosa dico? un minuto! di lezione che non sia cadenzato, in modo aperiodico ed imprevedibile, dalle domande. Mie e dei miei studenti. Domande di chiarimento, di riflessione ad alta voce; provocatorie, le mie.
Sono istanti di grazia, quelli in cui sento un dodicenne iniziare a rivolgersi a me e alla classe dicendo: “La mia è per metà una domanda e per metà un’affermazione…”. Mi sembra così incredibile che la mente (intesa nel suo insieme cognitivo-emozionale) sia capace di partorire una tale libertà nei confronti dell’adulto e dell’istituzione che egli rappresenta, a partire da un’esigenza del Sé - un’urgenza, sarebbe meglio dire - tanto insopprimibile.
Di una didattica problematizzata ho scritto più volte; pensa che quasi un anno fa scrivevo questo:
Su che cosa dovrebbe basarsi la scuola, se non sulla domanda? E non intendo la serie di domande che elaboriamo per le verifiche, spesso domande volte ad “andare a cercare il pelo nell'uovo", da parte nostra, non a tentare di costruire qualcosa di più grande ancora, nello spazio comune che esiste tra docente e studente.
Martedì scorso (ti lascio qui sotto il post, nel caso non lo avessi ancora letto) avevo proprio definito la scuola come “un sistema in grado di aprire la via al desiderio”.
Ma se le fondamenta della scuola sono le domande, dobbiamo insegnarla noi, l’arte della domanda. Appunto, non educando all’idea che ‘sopravvivere’ nella scuola sia questione di spelling: imparare come ripetere, suono per suono, ciò che supponiamo l’insegnante voglia sentirsi dire.
Io imposterei un intero triennio a rendere metodo il modo di interrogarsi e di interrogare. Anche per sottolinearne la portata civica, come accennavo prima. Imparare a creare, grazie alle domande, un terreno comune con e per l’Altro; uno spazio, sempre sicuro, nel quale non è affatto detto che si debbano condividere le opinioni ma dove certamente si elaborano criteri condivisi. Un po’ quello che dovrebbe essere un Consiglio di classe, no?
Porre delle domande che siano generative è un’arte che non si inventa dalla mattina alla sera; richiede pratica, allenamento e una guida. Se non si sperimenta, e a lungo, un ambiente di ‘domande buone’, si tratta di una abilità che resterà per sempre sopita. Potrebbe trattarsi di una competenza civica che non si svilupperà mai.
Non è mia intenzione essere pedante, ma Socrate e il buddhismo insegnarono che il porre domande implica una estrema concentrazione mentale ed un intenso scambio (cognitivo ed emozionale) con l’interlocutore, in un ambiente nel quale risate e allegria non siano escluse.
(interessante che sia la maieutica classica che la scuola del pensiero buddhista ponga grande rilevanza all’aspetto della pratica e della disciplina)
È mai stata una priorità della nostra didattica favorire le risate e l’allegria in classe?
Una variante della tassonomia di Rumsfeld prevede un modello a quattro entrate basato su:
cose che siamo convinti di conoscere e che infatti conosciamo
cose che crediamo di non conoscere ma che invece conosciamo (se le consideriamo in un’ottica differente)
cose che siamo convinti di conoscere ma che invece non conosciamo
cose che crediamo di non conoscere e che in effetti non conosciamo
(ho utilizzato i verbi “credere” e “essere convinto di” in qualità di sinonimi)
Trovo interessantissimo provare ad immaginare la nostra pratica didattica (ma anche la nostra pratica di studio!) nei quattro termini descritti sopra.
La prima situazione ha bisogno di domande confirmatorie: abbiamo bisogno di far capire allo studente che non sta ‘prendendo lucciole per lanterne’!
La seconda situazione è quella che preferisco. Lo studente che non riesce a scardinarsi da una prospettiva limitata e sterile, tu che vedi benissimo che cosa dietro l’angolo che egli non riesce a svoltare e devi ingegnarti per fargli fare quei cinque passi che ancora gli mancano… Sarebbe la mia immagine preferita, se dovessi descrivere il mio lavoro in classe!
Nella terza situazione sono estremamente utili le domande ‘ingenue’ (e sì… sono quelle delle quali spesso noi docenti abusiamo… “Ah dici? Ma allora come spieghi che… X, Y, Z?”).
La quarta situazione è quella che richiede esplorazione: entrare nel problema e accertarsi di quello che esso davvero significa e pone in gioco.
Io fra poco entro in classe. Sono curiosa di osservarmi mentre mi districherò fra le quattro situazioni diverse! Prometti che mi racconterai anche la tua esperienza!
Ti auguro una buona settimana con un’affermazione di quel gran geniaccio della didattica che era Richard Feynman (sì… era anche un geniaccio della Fisica, ma questo per me viene in secondo piano):
“Lo stupido pensa di sapere tutto senza aver bisogno di porre domande; la persona intelligente pone domande su qualsiasi cosa pensa di sapere”