“L’Uomo attraversa il presente con gli occhi bendati. Può al massimo immaginare e tentare di indovinare ciò che sta vivendo. Solo più tardi gli viene tolto il fazzoletto dagli occhi e lui, gettato uno sguardo al passato, si accorge di che cosa ha realmente vissuto e ne capisce il senso”
(M. Kundera)
Buongiorno ✼
Nei giorni scorsi molto si è scritto a proposito del cosiddetto pensiero debole, dopo la scomparsa di colui che fu il suo massimo esponente in Italia, Gianni Vattimo. Il relativismo e il rifiuto di un concetto assoluto di verità non sono certo un’invenzione della filosofia novecentesca, ma è indubbio che uno sguardo volto alla complessità della vita e della realtà parve - in epoca post-moderna - ben adattarsi alla descrizione di un mondo disgregato e privo di riferimenti.
Nel numero di lunedì scorso, riflettevo su ciò che rappresenta l’educazione nella vita di un individuo, persino quando costui non ne sia cosciente. Oggi mi chiedo se la crisi educativa che osserviamo da decenni non possa essere (anche) frutto del diffondersi di un’accezione di educazione che, privata della compagnia delle sue altre, è stata eretta a suo assoluto significato.
Sto pensando all’accezione del termine che all’educazione assegna il valore di deposito di tutte quelle che sono le virtù (intese non nel senso classico, aristotelico, di eccellenza, ma viste secondo una lettura moralistica). Era abbastanza prevedibile che, ridotta all’interno di un perimetro simile, nell’epoca post-moderna l’educazione diventasse quindi un termine da respingere, nella prospettiva di porre invece in evidenza l’individualità del soggetto.
Eppure lunedì scorso, descrivendo quelli che ho chiamato i sette pilastri dell’educazione, l’ottica dalla quale osservare il nostro terreno di azione - ‘nostro’ non solo di docenti, ma di esseri umani - era molto più ampia di quella che potrebbe essere data da un semplice diktat morale.
Ho il sospetto che quello che manca - ai nostri studenti e alle loro giovani famiglie - sia proprio la conoscenza della possibilità di quell’ottica.
Un secondo sospetto poggia sull’ipotesi che la scuola - cioè, in definitiva ognuno di noi quando entra in classe con la sua coorte di discipline e di amore per esse - abbia dato troppo per scontata quella medesima visione.
Non penso che, prima di queste famigerate decine di anni addietro, gli insegnanti agissero in chissà quale modo - diverso dal nostro - per comunicare da che prospettiva stavano guardando il mondo, no. Però il contesto culturale, sociale, delle famiglie, era tale da generare un - seppur vago - terreno d’intesa: ciò che accadeva a scuola, nelle ore delle lezioni, era avviluppato in modo intrinseco con lo svolgimento delle vite. Non vi era necessità di dimostrare quotidianamente che l’educazione è ciò che fornisce la “vigile coscienza di esistere” (in quanti mi avete detto di esservi innamorati di questa espressione!); tale certezza creava già il tessuto delle esistenze di ognuno - ricca o povera, istruita da generazioni o appena affacciata sulla soglia della cultura che ne fosse la famiglia.
Oggi non è più così, e lo sappiamo bene. Quel pensiero debole al quale facevo riferimento ce ne ha dato le ragioni e ne ha descritto le conseguenze.
Penso che quindi stia a noi, stia alla scuola,
prendersi carico di ri-verificare insieme agli studenti che ‘educazione’ non è un termine che ha (dapprincipio, in origine perlomeno) a che fare con l’etica, ma che essa definisce lo strumento che permette ad ognuno di ricordare chi è. O di scoprirlo (che è poi la stessa cosa).
È all’interno di una riflessione simile, infatti, che trova spazio la mia (personalissima) dedizione nei confronti dell’orientamento narrativo e della potenza della didattica orientativa, che NON è insieme di strategie o distribuzione cronologica, lungo il quadrimestre, di attività didattiche (*). Se andassi a rileggere i sette pilastri dell’educazione, penso che anche tu potresti rileggerli nell’ottica di strumenti che garantiscono ad ognuno di diventare ciò che è.
(*) La sequenza delle attività che ho pensato all’interno del mio Manuale per l’Orientamento muove, infatti, dalla forza delle singole discipline e da una visione complessiva data dal consiglio di classe. [Se ancora non conosci il progetto e vuoi prenderne visione, ti basta rispondere a questa e-mail e sarò lieta di inviarti tutto]
Ti lascio il post della scorsa settimana, che trattava di quei sette pilastri.
Non si tratta, allora, di relegare in seconda fila le nostre discipline, di ridurne le ore a favore di non meglio specificati ‘progetti’; così come non credo sia giusto scagliarsi contro le direttive legislative (Educazione Civica e Orientamento, per citare le più recenti) che, a detta di alcuni, stanno ‘rubando ore alla scuola’.
La sfida è tornare a riflettere su quello stile comunicativo - quel discorso tra docente e studente - che abbiamo ultimamente dato per scontato; su ciò che significa raggiungere un sapere (o anche rimanerne per sempre privati); sull’educazione che è strumento per riconoscere una crisi e saperla affrontare; sulle possibilità di empatia e collaborazione che vengono offerte dal ricordo di come abbiamo fatto a diventare chi siamo. Perché siamo fatti di ciò che abbiamo imparato e di ciò che abbiamo respinto, delle circostanze - felici o drammatiche - che teniamo associate a quei momenti, delle idee di successo e di fallimento che abbiamo cresciuto, delle persone attraverso le quali si è mossa per noi l’educazione.
E, in tutta onestà, non vedo nemmeno un aspetto delle mie discipline che non possa servire a convogliare tutto ciò.
Che cosa ne dici?
Buona settimana ✼
Simona