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Buongiorno e buon Primo Maggio!
È proprio vero che non vi è nulla di meglio, per analizzare la portata delle proprie opinioni, di una sanguigna obiezione! Mentre ti scrivo, sono appena uscita da un quasi-litigio con mio marito, riguardo all’argomento ‘valutazione’. Ho capito che, nell’opinione comune (persino di una persona che convive con un’insegnante!), decidere di mettere sul piatto tutto ciò che attiene all’ambito valutativo si traduce in commenti del tipo: “ma anche noi siamo andati a scuola e siamo venuti su bene lo stesso!” oppure “ma allora non bisognerebbe dire ad uno studente che ha preso 4 perché ha svolto una verifica orribile?” etc.
Mi sono quindi resa conto in modo ancor più netto dei due aspetti sui quali penso sia sensato lavorare (come hanno fatto i partecipanti alla masterclass della scorsa settimana).
Innanzitutto non bisogna avere il timore di calare nel contesto storico le nostre azioni. Il “si è sempre fatto così” già di per sé è il veleno di ogni professione; se, in aggiunta, si ignorano le (a volte complesse) dinamiche degli ultimi quarant’anni… una gran quota del danno è compiuto.
Inoltre, viene data per scontata l’identità “voto = valutazione”. E non è un’identità. Avevo iniziato a ragionarci sopra qui, se ricordi, e poi avevo approfondito nei tre martedì successivi del mini-corso online
Su entrambi i binari ho intenzione di continuare a riflettere (che è anche agire, ovviamente). In particolare, mi sorge un pensiero: in un’etica di personalizzazione ed inclusività, come possiamo accettare che non sia predisposto uno spazio - ‘eccedente’, appunto, per utilizzare il lessico che mi è caro - all’interno del quale ognuno degli studenti trovi spazio? E proprio perché lo spazio che predisponiamo noi docenti deve essere uno spazio inglobato nella didattica (sono altri i professionisti che si occupano delle sfere ad essa contigue), la nostra presenza e posizione all’interno di esso deve essere riferita anch’essa in termini di ‘valutazione’. Il 4 della verifica orribile rimarrà (e deve rimanere), ma avremo esplorato un terreno nel quale - forse - esso avrà acquisito spessore e ragionevolezza.
Sono già abituati, i nostri studenti (anche giovanissimi) ad una realtà impostata sul principio di azione-reazione… Mi piacerebbe che la scuola esistesse per dimostrare loro che vi è necessità di altro: altro tempo, per riflettere; altri spazi, per muoversi. Dimostriamo loro che in quel tempo e in quegli spazi noi, i loro insegnanti, ci sono. Non solo carnefici armati di registro elettronico e verifiche a crocette, e nemmeno ‘sportello di ascolto’ (non è questo il nostro lavoro!). Ma uomini e donne testimoni delle loro discipline (la metafora bellica dell’arma vorrei non si addicesse alla cultura) e dotati della facoltà - che è razionale - di entrare in comunicazione con l’altro.
Io penso che, se fosse così, eviteremmo i casi di docenti che si sentono ‘in ostaggio’ delle certificazioni che giungono in segreteria… Non vi è un unico modello per misurare, men che meno vi è uno schema standard per valutare! Se si è sempre fatto così, non è detto che si sia agito per il bene dell’altro soggetto implicato (e agente) nella valutazione: lo studente.
Buona settimana e buon mese di maggio (non è forse il nostro mese più odiato?)
Simona