Ciao! Spero che tu abbia trascorso la giornata di ieri riposando e coltivando gli affetti.
Sebbene la settimana che si apre ci vedrà a scuola per qualche giorno in meno del consueto, non ho voluto rinunciare a questo appuntamento, che sta diventando sempre più occasione di dialogo con tanti colleghi, di crescita ed evoluzione personale. Anche perché, un paio di giorni fa mi sono imbattuta in un articolo (questo) di Guia Soncini, che - forse - prendeva le mosse da un umanissimo sentimento di confronto con un’altra professionista. Non ne ho idea. In ogni caso io sono stata colpita (e alquanto irritata, te lo confesso) da una argomentazione buttata là, che ti riporto in stralcio:
[il libro, di Stefania Andreoli] esce nel periodo in cui almeno una volta a settimana qualche studente universitario del paese nelle cui università puoi prendere 30 senza saper leggere e scrivere ci spiega che lo stiamo soffocando con la nostra smania di performatività. Nessuno, mai, risponde ma chi ma cosa ma quando ma smettila di parlare come vivessi a Tokyo.
Con l’evidente crisi educativa a tutto tondo1 - prima ancora che del solo sistema di istruzione e formazione - in Italia ci stiamo confrontando da anni, ben prima che il Covid allungasse la sua mano sulle forme di didattica a distanza. Affermare che l’intero apparato - dalla scuola dell’infanzia fino all’università - stia patendo i colpi di una qualche forma di inadeguatezza, mi sembra quindi fin troppo ovvio. Compiere il duplice passaggio successivo - che consiste a) nel ridurre l’esperienza universitaria ad una allegra passeggiata e soprattutto b) nel dipingere lo studente italiano medio come un piccolo cucciolo viziato - lo trovo, invece, davvero poco rispettoso e poco corrispondente alla realtà.
Qualche giorno fa mi chiedevo, in un post su Instagram, se questo evidente disagio giovanile non potesse essere occasione per riflettere onestamente su noi stessi come professionisti e per porsi nell’ottica di essere in grado di proporre soluzioni all’idea della scuola italiana come ‘balena spiaggiata’. Mi rifaccio all’immagine che ne diede qualche tempo fa la prof.ssa Tiziana Palmieri, dirigente. Se ancora non fossi iscritto alla sua newsletter, te la consiglio caldamente!
“Smettila di parlare come se vivessi a Tokyo” mi suona tanto come un “durante la guerra, sì che…”. Il fatto che fosse un miracolo vedere comparire un pollo sulla tavola del 25 dicembre (mio papà mi raccontava di quanto strabuzzò gli occhi, un Natale di guerra, a Napoli, vedendo tornare la madre con il pennuto che era riuscita a recuperare dopo ore di ricerca…) credo non neghi la necessità delle realtà attuali come il Banco Alimentare. Né l’esistenza di un concetto esteso di performatività ne garantisce, di per sé, la bontà.
Per non incagliarmi anch’io (come la summenzionata balena) in un gioco sofista - grazie alla mia amica Valeria per aver osato questa analogia! - ho preferito, nella riflessione di questa mattina, virare su un concetto correlato alla performatività e che ‘chiama’ noi in qualità di docenti. Si tratta della valutazione.
Valutare si può? No, si deve!
Inizio subito affermando una cosa: l’azione del valutare è implicita in qualsiasi relazione educativa. Poiché io sono coinvolto con te - ‘tengo a te’, persino! - non posso fare a meno - né voglio fare a meno - di esprimere un giudizio e di riceverlo da te. Vale tra amici, tra coniugi, tra colleghi. Questo, per me (e intendo anche per come ho vissuto venticinque anni di insegnamento), è il livello zero. L’imprescindibile. I livelli successivi, però, sono necessari nel momento in cui siamo anche - oltre ad essere individui - dei docenti. E perciò è doveroso interrogarsi sulla particolare area della valutazione che deriva - e viene espressa - dalla misurazione, ma non si esaurisce in essa.
Foto di William Warby su Unsplash
Ecco, a me è sempre interessata quell’eccedenza, quello spazio lasciato dalla misurazione a beneficio di ‘altro’ (sì, ma cosa?) e che viene confinato anch’esso entro l’orizzonte della valutazione. Io penso che in questo spazio vuoto (vuoto di misurazione, perché privo di misurabilità), in questo silenzio, nella nostra - umana? epocale? - incapacità di animarlo e di viverlo, risieda la causa dell’inadeguatezza percepita di cui scrivevo sopra. Che è una inadeguatezza, a ben pensarci, condivisa dal sistema scolastico con altre realtà (persino più ampie) della società, quella lavorativa in primis.
Per definizione, una misurazione chiede l’esistenza di indicatori chiari, ed è questa la ragione per la quale una porzione di quello spazio vuoto potrebbe essere assegnata al cosiddetto ‘impegno’. Non misurabile, ma sicuramente valutabile. E non sto ancora prendendo in considerazione l’aspetto della descrizione, poi, di questa valutazione: a parole? con delle lettere? con dei voti numerici in una scala stabilita? accompagnandola da una pacca sulla spalla?
Quando noi valutiamo un lavoro, teniamo dentro di noi tutte queste dimensioni: lo spazio più interno della misurazione, in rapporto alla corrispondenza che verifichiamo del lavoro con alcuni indicatori prestabiliti; lo spazio intermedio di silenzio (che è poi quello della relazione umana, in senso più manifesto); lo spazio esterno della descrizione.
Io credo che la proporzione tra i diversi spazi sia quanto più difficilmente riusciamo a chiarire o chiedere a noi stessi, nel momento in cui valutiamo, e la ragione della (a volte) assoluta mancanza di comunicazione con gli studenti. Prendendo in prestito un concetto filosofico, mi sembra di poter dire che se la misurazione è la realtà, la valutazione è il reale. Reale è tutto ciò che eccede, che sfugge ad una banale osservazione e misurazione. Ma è anche tutto ciò che ci chiama, che ci interroga e che esige - eticamente - la nostra presa di posizione.
Prima ho usato il termine ‘comunicazione’ (tra docente e studente, ma potrebbe essere anche tra datore di lavoro e dipendente, tra marito e moglie…), però mi chiedo se non dovrei più correttamente chiamare in causa il ‘riconoscimento’.
La filosofa Angélique Del Rey - la cui attività di saggistica coinvolge da anni lo schema del lavoro e dell’istruzione - ricorda che “contro la visione manageriale del lavoro, per cui l’obiettivo di chiunque nella vita sarebbe, come per un’impresa, essere più competitivo, guadagnare più soldi ed esercitare più potere, una corrente contemporanea della sociologia del lavoro (ripresa anche da alcuni responsabili delle risorse umane) vede il riconoscimento del lavoro come uno degli elementi chiave della retribuzione” 2. Spostandosi nell’ambito scolastico, la retribuzione può essere considerata la valutazione che noi offriamo agli studenti? La suggestione che Del Rey offre nei suoi lavori e che trovo cruciale dal nostro punto di osservazione (quello scolastico) è che il riconoscimento è soprattutto (oltre ad essere frutto dell’intersoggettività) qualcosa di oggettivo. Questo rimanda sicuramente alla teoria del lavoro affermata da Hegel, secondo la quale il riconoscimento è un moto della coscienza che, attraverso la trasformazione che produce nelle cose, si sente ‘a casa nel mondo’.
Ecco, a me sembra che, attualmente, pochi adulti e forse ancor meno studenti si sentano ‘a casa nel mondo’. È proprio questo che mi fa riflettere sul fatto che, alla base dell’inadeguatezza percepita, vi sia un problema di riconoscimento.
Ma come affrontare, nella concretezza, l’esigenza di riconoscimento?
Tentare di rispondere a questa domanda coincide, a mio avviso, con il desiderio di esplorare quel terreno spoglio che sta tra la misurazione e il confine della valutazione. Questo implica un (ri)mettersi in gioco come professionisti ma soprattutto un voler mettere in discussione l’idea di ciò che è il valore del soggetto. Cito un recentissimo intervento di Paola Frassinetti, Sottosegretaria di Stato per l’Istruzione e il merito, allo scopo di farti capire quale sia, secondo me, il punto cruciale del discutere.
“La scuola non deve spingere e non spinge verso una competizione esasperata, ma non può eludere il voto e il compito stesso della scuola che è valutare le capacità nell’apprendimento. I ragazzi saranno valutati nell’arco di tutta la loro vita, sul lavoro, negli esami professionali, il mondo lì fuori sa essere spietato e l’ostacolo non va aggirato”
Forse sarebbe il caso di chiedersi se questo stile valutativo sia davvero destinato a declinarsi per un futuro indeterminato su tutti i rami del vivere sociale (quando già le scelte nelle politiche scolastiche italiane degli ultimi dieci anni non mi sembra si siano orientate in questa direzione). Inoltre, sarebbe il caso - anzi, forse innanzitutto - di chiedersi se tale e tanta ‘valutazione’ (più che altro, misurazione) sia adeguata ad un soggetto umano del XXI secolo. Ma…
… per ora, mi fermerei qui… I lunedì dell’Angelo (o le Pasquette, che dir si voglia!) sono fatti più per la convivialità davanti ad un ricco piatto regionale che per questioni di filosofia scolastica. Tuttavia, se hai sottoscritto un qualsiasi piano di abbonamento alla newsletter, domani 11 aprile riceverai un nuovo articolo nel quale voglio approfondire la questione del riconoscimento e dell’oggettività della valutazione.
L’articolo troverà poi posto all’interno della sezione Stanze di Valore, e andrà a comporre un percorso di autoformazione della durata di un mese, relativo al verbo ‘VALUTARE’. [Ti ricordo che i post delle Stanze di Valore sono i nostri rapidi appuntamenti del martedì, durante i quali spero di riuscire a mettere a fuoco alcuni aspetti che spesso minano il nostro benessere all’interno della professione]
Con l’articolo di questo martedì voglio iniziare ad affrontare il tema del rischio - per la scuola e la società - di legarsi così strettamente ad una visione tutto-o-nulla della valutazione.
Domani avvierò anche una discussione (o thread, nel lessico di Substack), in modo che chiunque possa confrontarsi con gli altri sull’argomento.
Ci si legge domani, allora! (se non sei abbonato, ci troviamo comunque qui lunedì prossimo per altri spunti di riflessione)
Simona
A. Glucksmann, Une crise post-moderne, in “Politique Internationale - La Revue”, 126, 2010
A. Del Rey, La tirannia della valutazione, Eleuthera, 2018
Questa mattina, ancora nel letto, arrivo qui passando per la newsletter. Grazie Simona per questa complessità limpida. Tante porticine nuove di riflessione si aprono e mi trasmetti grande energia. Buon 1 maggio! Ele