Buongiorno ♡
Che tu ti stia avvicinando agli esami di Stato oppure no, penso proprio che l’atmosfera di queste Lettere non cambierà drammaticamente, da qui al 1° settembre. Avendo voluto, sin da subito, creare un luogo nel quale la scuola sia oggetto - intellettuale ed umano - da rigirare tra le mani e da osservare da ogni prospettiva, con attenzione ma senza pregiudizio, il fatto che le lezioni siano sospese non modificherà, di fatto, il tenore delle mie parole.
La settimana che ci siamo lasciati alle spalle è stata intensa, anche dal punto di vista emotivo. Oso affermare che chi attraversa scrutini, eventuali non ammissioni, delusioni di colleghi e studenti, senza lasciarsi scalfire dal benché minimo dubbio… credo stia guardando l’insegnamento dal versante sbagliato. Da quello performativo, del docente come dello studente; da quello privo del valore della relazione umana, che è l’unica ragione che dà origine alla valutazione.
In ogni caso… io e te, invece, ci troviamo insieme proprio per condividere una visione della scuola nella quale l’insegnante non è lo snob depositario di un sapere assoluto.
Quindi, vogliamo riprendere da dove ci eravamo lasciati?
E allora ti propongo di parlare ancora di fallimento.
[‘Ancora’ perché i brani che ho selezionato ed inserito nella newsletter di venerdì scorso avevano l’errore come snodo]
Il brano di Gardner che avevo scelto, lo farei leggere sin dalle medie, perché aiuta a mettere in luce l’ampio contesto mentale ed emozionale nel quale si localizza l’azione dell’aver già fallito nel passato. Situa il fallire al crocevia di due tempi distinti. Quando scriviamo il giudizio di fine quadrimestre e valutiamo quanto un nostro studente sappia ‘accettare l’errore’, siamo sicuri di conoscere il panorama di quel contesto? Siamo sicuri di saper distinguere la sua non accettazione dell’errore da una lettura sbagliata di esso, conseguenza del suo vissuto? Ci siamo messi a lavorare per agire su quel contesto, modificandolo?
E non mi si dica che “non è il nostro lavoro, perbacco!”...
E ancora… Ho trovato illuminanti le parole di Ed Catmull, poiché rinviano ad una necessaria analisi della relazione tra sofferenza e crescita, che deve lucidamente compiere chi ha fallito. Quale quota di sofferenza sono disposto a tollerare in nome di una crescita che sto inseguendo? Riesco a discernere il valore della crescita (data dall’errore) all’interno del mare di dolore che mi sta provocando? Riesco a stare al fianco di una mia studentessa, sovrastata dalla sofferenza tanto da non visualizzare l’orizzonte che essa maschera?
E non mi si dica che “non è il nostro lavoro, perbacco!”...
[ti ricordo che se vuoi accedere ai brani ai quali mi riferisco oggi, li trovi qui]
Buoni esami e buone riunioni, oppure buon mare e buone letture ♡
Simona