“Bisogna che ogni allievo scopra sempre una cosa da spiegare al di sotto della cosa spiegata”
(J. Jaurès, 1910)
Buonasera ✤
Si apre oggi un nuovo percorso che amerei affrontassimo insieme.
Ho pensato molto a quale argomento scegliere per i prossimi martedì e mi è sembrato che sarebbe stato interessante tornare un po’ sui fondamentali. Cioè sul valore, sul senso, sul significato della professione che abbiamo scelto.
O che stiamo per scegliere! So che alcune delle persone che leggono queste Lettere non sono ancora entrate in un’aula per posizionarsi dalla parte del docente, ma visualizzano la figura di insegnante nel loro prossimo futuro. Oltretutto - anche perché che ormai acquisire tale ruolo sociale somiglia molto ad una kermesse che ha il tenore di un ‘10000 metri ostacoli’ - mi sembra utile ribadire quali siano gli estremi del terreno sul quale andiamo (o andremo) a costruire, in questo XXI secolo.
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Iniziamo?
Darei l’avvio spostando agli antipodi la questione: declinandola sul versante delle famiglie. Tornerò fra poche righe ‘in sala professori’, come del resto avevo iniziato a fare qui:
Ma prima…
Perché una famiglia dovrebbe mandare i figli a scuola?
Sì, lo so… Siamo appunto nel XXI secolo, i genitori lavorano quasi sempre entrambi, i nonni sono ancora giovani (oppure ancora lontani dalla ‘soglia di liberazione’ stabilita dall’INPS…), esiste l’obbligo scolastico etc.
Eppure sappiamo anche bene come le visioni di home- e un- schooling abbiano acquisito una forza ulteriore, soprattutto nel post-pandemia.
Dunque, al netto di ciò di cui sopra, perché una famiglia dovrebbe affidare il figlio, la figlia a degli insegnanti?
Dettaglio 1. Scelgo di porre l’accento proprio sugli insegnanti e non sul resto dell’istituzione-scuola, poiché ritengo che siano la tensione, l’autonomia e la creatività del singolo docente rispetto alla sua disciplina che determinino a valle una cascata di eventi che possono rendere la scuola altro da un luogo di reclusione e immobilità.
Dettaglio 2. Scelgo di utilizzare il verbo affidare - antiquato, vetusto, poco adattabile - per descrivere l’azione indispensabile che (per me) sta alla base dell’educare. E quindi anche dell’istruire e del formare. Nella radice di quel verbo abita ciò di cui mendichiamo la presenza: la fiducia, nel dare e nel ricevere. Nel consegnare i propri figli ad altra realtà, affinché crescano meglio di quanto potrebbero fare rimanendo solo con la famiglia; nel riceverli, da queste stesse famiglie, non come pacchi ingombranti e scomodi ma come semi da far attecchire.
Entrare in classe è un atto simbolico dalla portata enorme.
E lo è sia per un docente che per uno studente.
Per i nostri studenti, noi siamo la dimostrazione che esistono altri mondi, altre lingue e altri linguaggi, altre culture. Siamo ciò che permette di allargare il raggio del vissuto (ancora questo termine…) delle loro circonferenze.
Nonostante i protocolli, le sigle, le riunioni, siamo testimonianza che è possibile oltrepassare l’inquietudine di ciò che è ignoto e l’angoscia di rimanere confinati dai propri fallimenti; educhiamo a controllare la paura di non farcela e di rimanere imprigionato da chi pensiamo di essere e non siamo già più.
Un insegnante non trasmette un sapere. Trasmette una relazione con il sapere.
Scriveva Paul Ricoeur:
“Che cosa faccio quando insegno? Parlo. [...] Non ho altro modo di trasformare il mondo e non ho altra influenza sulle persone. La parola è il mio lavoro. La parola è il mio regno”
D’ora in poi, quando ci rifaremo al metodo, quando lo citeremo ai genitori (di solito per sottolinearne la mancanza…), mi piacerebbe che avessimo in mente le parole del filosofo francese.
Agli studenti non è mai chiesto di ripetere, ma di ripercorrere un’andatura che parla loro.
L’insegnante, con la sua parola (che è azione), trasmette ciò che “libera e unisce gli individui” (bellissima definizione di Olivier Reboul). Il sapere, quello elaborato dall’umanità nel corso della sua storia, è ciò che emancipa una collettività ed è ciò che consente ad ognuno di agguantare il mondo, attraverso i simboli.
Ognuna delle discipline che portiamo in dote forma il cittadino, e prima ancora l’umano. Ciò che ognuno degli insegnanti contribuisce a definire è, infatti:
l’impegno e la tenacia nel farsi comprendere dall’altro
il coraggio di mettersi nei panni altrui
la capacità di dubitare di se stessi
la volontà di disincagliare il sapere dal credere
Il pensiero libero nasce da quei presupposti, che la scuola può fornire.
Ogni insegnante, stando davanti alla sua disciplina, fa esercizio di democrazia e educa ad essa.
Nella parte seguente, vorrei tornare un po’ sulle parole (citate in apertura) che Jean Jaurès pronunciò nel suo discorso, più di un secolo fa, e che mi sembrano di un’attualità incredibile.
Ne è sorto un decalogo.
Dieci domande per il docente del 2023 e oltre…
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