Buon venerdì ✰
Parlare di quiet quitting, oggi, non è sicuramente più un elemento di novità. Molto si è detto e scritto su un fenomeno sociale che l’emergenza sanitaria del 2020-2022 ha fatto esplodere ma certamente non determinato.
Il non sentirsi più coinvolti nel proprio lavoro, tanto da prevederne (più che in altri periodi storici) l’uscita, ha più a che fare con la generale trasformazione della società da ‘società dei prodotti’ a ‘società della cura’ (ne scrivevo qualche giorno fa qui), nonché con lo smarrimento dell’idea di Sé, generato dalla possibilità di costruire individualmente la propria identità. Se ricordi, ne avevo parlato, qualche settimana fa, proprio sulle Lettere:
È una questione che interroga anche noi in quanto docenti, e richiama il sentirsi coinvolti nella propria attività lavorativa, riflettere sul bilancio tra impegno/dovere e coltivazione del benessere personale, etc.
In definitiva, penso si possa porre come asse di rotazione, intorno al quale organizzare la riflessione, il tema della motivazione.
Ho inserito sotto uno screenshot che ho tratto dal report 2022 Gallup:
Gallup rileva che 6 lavoratori su 10 si identificano in questo profilo. Il 60% dei lavoratori a) non è coinvolto in quello che fa; b) è fisicamente presente ma non sa che cosa sta facendo o perché quello che fa abbia senso; c) non instaura relazioni significative con i colleghi o con il capo.
Vuoi giocare con me?
Prendi i termini ‘colleghi’ e ‘capo’ e sostituiscili, rispettivamente, con ‘compagni’ e ‘insegnante’. Oplà! Ecco che abbiamo scritto il perfetto giudizio del normale studente disinteressato alla scuola! Potremmo aggiustare un po’ la percentuale, ma sappiamo bene che - in certi contesti sociali e in certi ordini scolastici - non saremmo, drammaticamente, troppo lontani da quel numero.
La provocazione di questo venerdì (sta diventando un mio deciso marchio di fabbrica, questo!) è quindi la seguente: come mai molti di coloro che svolgono la nostra professione non riescono a completare l’analogia tra una situazione esistenziale tipica dell’essere adulti nel XXI secolo e la situazione emozionale (che quindi è anche sempre di apprendimento) dei loro studenti?
La perfidia mi porterebbe a dire che proprio perché vivono la situazione esistenziale tipica dell’essere adulti nel XXI secolo allora non hanno alcun desiderio di comprendere la situazione emozionale dei propri studenti… Passo e chiudo.
E quindi…?
Accettiamo che un inevitabile corollario dell’esperienza della conoscenza sia (per tanti) trascorrere metà della propria giornata - fra lezioni e impegno personale - in una condizione di non coinvolgimento e insensatezza?
Che poi… in sostanza mi sembra che sia (ancora e sempre) una questione di quale tipo di immagine del futuro e del futuro Sé riusciamo, come docenti, a rendere esperibile.
Riusciamo a veicolare un’esperienza di coinvolgimento nella professione che abbiamo scelto?
Un’esperienza di rispetto nei confronti dei nostri colleghi e degli stessi studenti?
Un’esperienza di dedizione alle scelte che ci rendono unici?
[spoiler: NO urla in faccia perché Tizietto ha dimenticato il libro, NO sorrisino sarcastico perché Caio è assente anche oggi e tu hai la tua verifica, NO commento snob sulla vita di Sempronio]
Banalità, forse. Ma indispensabili.
Anche da esse credo che passi la testimonianza di una cultura del lavoro che è in sé educativa.
Potrebbe essere il caso di riprendere un concetto che avevo espresso pochi giorni fa
Quelle tre ‘banali’, esposte sopra, dimensioni di base che assume il nostro coinvolgimento nella professione diventano potentemente comunicative ed orientative semplicemente per il fatto stesso di sussistere e di essere comunicate agli studenti.
In un volume del quale ho già parlato in passato - Storie, futuro e controllo: le narrazioni come strumento di costruzione del futuro, F. Batini, 2011 - l’autore riflette su quella che Ricœur definiva l’intenzione etica: il vivere bene con l’altro e insieme all’altro.
Scrive Batini:
“Il processo di orientamento, complesso per sua natura, richiede oggi, conviene insistervi, il possesso di diverse competenze, prima fra tutte quella di lettura ed interpretazione di se stessi, degli eventi, delle azioni ed intenzioni degli altri, delle relazioni e del contesto in cui siamo immersi, delle scelte di azione che si presentano”
Penso che una delle competenze base dell’essere docenti sia quella di saper interpretare la storia che ci ha condotto davanti a quella classe e di volerne scrivere la continuazione insieme a quella classe. Dando così occasione ad ognuno degli studenti di organizzare la propria storia di vita.
Nota All’interno della Guida del Docente, per questo motivo avevo voluto inserire un brano tratto dall’Alcibiade Primo, di Platone:
Mi piacerebbe che ci chiedessimo sempre, sin dalla stesura delle programmazioni di inizio anno, qual è la speranza che, ogni giorno, porta a scuola i nostri undici-diciannovenni e certifica la loro fiducia nella possibilità di un futuro che sia a loro misura.
Cito ancora dalla Guida:
“Amo molto quello che scriveva Emmanuel Lévinas in Tra noi (Jaca Book, 1991), e cioè che il nostro essere è in continuo divenire non tanto perché esso si modifichi nel tempo, ma perché siamo continuamente assorbiti dalla preoccupazione di essere. E non di essere qualcosa o qualcuno; di essere e basta. Di qui, il paradosso dell’umana esistenza: essere consapevoli della fugacità e della mutevolezza, e al contempo essere chiamati ad una responsabilità, quella di realizzare il proprio essere nel miglior modo possibile.
Trovo quasi commovente pensare che sia proprio a questo fondante livello che si attui la testimonianza che ogni docente compie nei confronti di ognuno dei suoi studenti: vivere, essere, è un problema per tutti, a tutte le età; eppure questo non esime dal prendersi carico di una responsabilità che ha proprio tale essere quale suo oggetto. Dare forma al proprio tempo è il compito di ognuno. Noi lo facciamo (anche) seduti ad una cattedra, i nostri studenti guardano noi mentre lo facciamo per imparare il metodo e convincersi della necessità.
Imparare ad avere cura della propria esistenza è imparare l’arte di esistere: è la sapienza delle cose umane di cui parlava Socrate. Solo riuscendo a praticare tale arte, riusciremo a rendere il tempo dell’esserci una composizione di senso.”
PS Oggi, come vedi, ho deciso di aprire a tutti gli iscritti (e non soltanto agli abbonati) l’intero contenuto. Mi sembrava giusto…
{Se ne hai la possibilità, sarò orgogliosa se vorrai considerare di investire nella mia attività di ricerca e formazione. Oppure per te non è il momento, ma nel caso trovassi utile o interessante ciò su cui lavoro, ti sarei davvero grata se tu volessi condividere la newsletter con qualche amico o collega. Anche con questo piccolo gesto puoi sostenere la mia ricerca e la mia professione. Grazie}
Buon weekend e buoni pensieri ✰