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{Stai per leggere il secondo appuntamento (di una serie di quattro, uno ogni martedì) del secondo mini-corso di quella ‘formazione sostenibile’ che desidero siano le Stanze di Valore, qui sulle Lettere. Se sei abbonato alla newsletter (sia in forma mensile che annuale), potrai accedere al materiale completo di oggi (oltre che all’intero archivio di Lettere ad un (giovane) docente e ai post del venerdì di Visioni, all’interno dei quali si sta costruendo un’antologia per l’orientamento, liberamente utilizzabile}
Buongiorno a te!
Martedì scorso abbiamo iniziato a riflettere su che cosa significhi ‘prendersi cura di sé’. Spero di essere riuscita nell’impresa di dimostrare che avere a cuore il sé non corrisponde ad un atto egoistico e quindi apolitico, ma invece è proprio il contrario. Mentre rappresentiamo noi stessi in una struttura reticolare all’interno della quale dobbiamo imporci di riprendere respiro, stiamo anche giustificando e valorizzando la relazione docente-studente, improntata ad una visione di fioritura reciproca. Non a caso, la scorsa settimana sottolineavo l’accezione che legge l’educazione come ‘pratica di cura’, επιμέλεια. La parola indica sia l’attenzione che la sollecitudine che l’impegno.
Educare è quindi entrare tutti interi dentro una sollecitazione.
E di attenzione tratteremo proprio oggi, in questo secondo appuntamento del corso.
Vorrei guidarti infatti lungo alcuni passaggi di quello che mi piacerebbe chiamare un processo deduttivo: già la volta scorsa abbiamo intuìto che il prendersi cura chiede che venga attuata una prospettiva di pensiero, chiama ad una tensione e ad una dinamicità dell’animo, il cui primo passo - come vedremo oggi - è il saper applicare l’attenzione a sé.
Se pensare è quindi (già in sé) prendersi cura, esso è anche un ricucire le ferite tra le classi sociali e le generazioni. In francese scriverei, in modo ancor più incisivo, “penser, c’est panser” (“pensare è bendare, curare”). Del fatto che il pensiero sia cura contro la frammentazione facciamo esperienza in classe ogni giorno; mi piace dire che anche la cura verso noi stessi, il desiderio di sanare una (spesso presente) frammentazione, tra ciò che siamo e ciò che facciamo, passi dallo stesso pensiero in azione.
È un traguardo irraggiungibile portare la nostra dimensione più personale a rappacificarsi con quella lavorativa? È pura utopia credere che la nostra professione sia anche di cura e possa esserlo anche di noi stessi? Io sono convinta del contrario. Il campione statistico che posso offrirti è molto poco significativo: è la mia esperienza… Però posso ispessirla di percorsi di verità, di argomentazioni e di dimostrazioni.
Spero di riuscire ad essere convincente. Ne sarei felice, perché in palio c’è (anche) la tua felicità.
Oggi, dunque, vedremo come la prima benda da porre sulla ferita sia quella dell’attenzione (andando molto oltre, anticipandolo di secoli, il concetto di mindfulness).
Poiché non voglio che l’articolo di oggi sia astratto o accademico, mi sono divertita a cercare delle domande (le troverai contrassegnate con D.) oppure delle attività (che troverai contrassegnate con A.) che possano interrogare proprio te, insegnante alle prese con gli adempimenti finali, con l’assillo di essere magari ‘esterno’ oppure afflitto da una prospettiva incerta per il prossimo anno scolastico. Ti proporrò suggestioni che ho sperimentato io stessa in prima persona già in passato, ricavandone - devo dire - non pochi vantaggi. Per ognuna delle attività descritte, infatti, ti racconterò che cosa ha funzionato per me.
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