Buongiorno e buon inizio di settimana ✰
Avevo in mente da qualche tempo di iniziare ad affrontare una riflessione che credo si stia da qualche anno imponendo - apparendo in molteplici forme - a qualunque professionista dell’educazione: la capacità di lavorare e di interagire con gli studenti avendo ben chiara la differenza tra Io e Sé.
Perché dovrebbe interessarti?
Perché non si tratta di un (ennesimo) dato teorico del quale potresti tranquillamente fare a meno?
Se hai letto quello che scrivevo venerdì scorso, in un certo senso già hai intuìto la ragione per la quale, proprio perché siamo docenti, ci meritiamo - sì, non è un dovere! è una ricompensa… - di approfondire un aspetto della visione dell’individuo che ci viene fornita dagli studi di psicologia.
Vorrei raccontarti oggi che cosa trovo, all’interno di questo fondale teorico, di imperdibile per rendere la nostra professione più umana.
Vogliamo dirla con una metafora matematica?
Io : Sé = area cognitiva : area emozionale
E potrei fermarmi qui.
Potrei semplicemente citarti il volume della prof.ssa Lucangeli (che probabilmente avevi letto, quando fu pubblicato), “Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere”, potrei rinviarti alle mosse teoriche da cui prese il via il decreto sull’introduzione delle 33 ore da dedicare all’Educazione Civica, potrei parlarti (no, basta!) di NCS, di non-cognitive skills…
Voglio invece dimostrarti oggi, ma utilizzando un altro strumento argomentativo, la necessità di ‘procedere oltre l’area cognitiva’, nel costruire una professionalità educante.
Neuroscienze e psicologia dello sviluppo hanno, nell’ultimo decennio, fornito le prove di come l’apparato cognitivo e le risorse che esso acquisisce nel tempo sono il risultato dell’interazione tra individuo e ambiente, tra genetica ed esperienze. Il bagaglio cognitivo assume la sua forma definitiva grazie agli stimoli che pervengono dal mondo esterno (Piaget docebat…).
La riduzione del processo educativo alla sola componente cognitiva è una eredità della quale la scuola sta iniziando da pochi anni a liberarsi, ed è a tutti noi evidente come questo processo di affrancamento si intersechi con le discussioni sulla valutazione e sulla priorità da assegnare alle mosse orientative.
Le competenze che la scuola dichiara di voler garantire a tutti gli studenti prendono ragionevolezza soltanto se esse sono finalizzate all’acquisizione di una struttura individuale solida; a sua volta, essa si raggiunge immergendo gli individui in un contesto ricco, e cioè fecondo dal punto di vista cognitivo E relazionale, emozionale, affettivo.
Qual è il problema?
Pensaci…
Vogliamo assegnare un numero alla percentuale del processo educativo che ancor oggi ha come interlocutore l’Io dello studente, cioè la sua componente cognitiva?
Inizio io: non meno dell’80%, a mio avviso.
E tu che cosa ne dici?
Piero Ferrucci, psicoterapeuta e filosofo del quale ti consiglio di recuperare tutti gli scritti, afferma che debba essere prioritaria la costruzione della consapevolezza del Sé, perché esso (e non l’Io) è la componente più stabile e trasversale dell’identità.
Ma se il Sé è la componente più stabile, perché continuiamo - nella didattica quotidiana, nella programmazione - a privilegiare esperienze che agiscono sull’Io, cioè sulla componente cosciente di chi siamo?
Può un qualsiasi apprendimento risultare duraturo e consapevole se lo spazio che abbiamo destinato ad esso si trova soltanto nell’Io?
La consapevolezza e la permanenza nel tempo di qualsiasi esperienza identitaria (e gli apprendimenti lo sono) dipendono dal luogo nel quale l’abbiamo inserita: più tale localizzazione sarà profonda (a livello di identità) più ciò che tratterremo di tale esperienza sarà fondamentale per la nostra esistenza.
Il terreno di ricerca didattica che, a questo punto, si apre è potenzialmente illimitato. In esso trova legittimamente spazio la questione dell’individualizzazione e della personalizzazione (che cosa vi è di più unico dell’identità profonda di ognuno?) ed anche una certa regressione teorica dell’importanza da assegnare alle metodologie di apprendimento, se esso si debba declinare soltanto nell’ambito cognitivo.
Evidentemente, se scegliamo di accettare la sfida di lavorare con il Sé dei nostri studenti, decidiamo di esplorare aree impervie, terreni più sdrucciolevoli della comoda strada del cognitivo, zone nelle quali la sperimentazione e la ricerca didattica hanno un ruolo cruciale.
Mi sembra una possibilità molto interessante e soprattutto pionieristica!
Chi con me?
Buona settimana ✰
Simona