Manca meno di un mese a Natale!
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Spero che questa possa essere l’opportunità per regalarti quelle che desidero essere occasioni di riflessione per tutti gli attori coinvolti nel processo educativo
Credo che vi siano alcuni concetti sui quali, come insegnanti e più in generale come educatori, dobbiamo periodicamente tornare. Uno di essi è la valutazione. Quando ho iniziato il progetto delle Lettere e dei percorsi mensili di formazione per docenti (le Stanze di Valore), il primo tema che avevo voluto porre sotto la lente d’ingrandimento era stato appunto quello del valutare.
Per tua comodità, ti riporto qui sotto l’articolo che apriva quel percorso:
Ho sempre considerato le riflessioni sulla valutazione intimamente connesse con il concetto di didattica orientativa (più ostico e complesso persino del cosiddetto orientamento), per la semplice ragione che è del tutto inutile pensare di accompagnare bene nelle scelte se è in qualche modo falsato il giudizio che diamo alle azioni che i ragazzi e le ragazze compiono.
Accettare di rivedere entrambi gli ambiti - la valutazione e la didattica orientativa - è ciò da cui dobbiamo partire, se vogliamo riportare la scuola ad essere coerente con ciò che ne sta fuori.
È nel fuori, infatti, che ancor oggi traggono sostanza quelle opinioni e quei luoghi comuni contro i quali ci troviamo a scontrarci, noi che stiamo all’interno. Non soltanto mi riferisco all’idea di scuola - inutile, dissestata, frustrata - che viene convogliata nel sentire comune e che, di conseguenza, emerge poi nelle convinzioni delle famiglie, anche di quelle più ‘illuminate’. Penso anche ai sentimenti che nascono nell’ambiente lavorativo, abitato dai genitori dei nostri studenti.
E allora proviamo a metterci nei panni di questi genitori.
Di una generazione che, sebbene non possa essere definita boomer (e quindi non abbia goduto dei privilegi, in termini di crescita economica e benessere finanziario, dei loro genitori), ha tuttavia mosso i primi passi in un mondo del lavoro che si aggrappava tenacemente a quell’idea appena trascorsa di magnifiche sorti e progressive. Con la differenza che, ben presto, questa ‘alta’ Generazione X ha dovuto fare i conti con il declino dei concetti di produttività e di capitale umano.
I genitori dei nostri studenti sono coloro che hanno vissuto sulla loro pelle il tramonto dell’etica novecentesca del lavoro. Sono coloro che sono sprofondati in quella che è sembrata ed è poi a tutti gli effetti diventata una crisi di valori; tuttavia al ricordo del valore-principe (la produttività) sono rimasti fedeli. E lo sono tuttora. Anche mentre si presentano a colloquio con i professori.
D’altro canto, essi sono quotidianamente testimoni dell’inerzia dei loro figli, del loro disincanto, del loro timore di coinvolgersi e scommettere sul futuro. Ne soffrono, e ne vogliono discutere con noi. Eppure noi incarniamo ancora, ai loro occhi, un sistema come quello che avrebbe dovuto esistere e che non esiste più. Un sistema senza falle, senza crisi; un sistema retto dalle logiche del prodotto.
In definitiva, la maggioranza dei genitori dei nostri attuali studenti sperimentano in prima persona il girare a vuoto del sistema lavorativo - la sua inconsistenza e il suo non corrispondere alle esigenze della persona - però continuano a credere (perché non sono stati educati a credere ad altro…) nel concetto di prodotto e lo vedono rappresentato nella scuola.
Non possiamo certamente dar loro torto! Nell’ultima decina di anni hanno ricevuto circolari su circolari che comunicavano l’inserimento delle prove Invalsi nell’esame di Stato (nelle variegate sfumature che il Ministero dell’Istruzione ha saputo produrre anno dopo anno!), hanno letto sui quotidiani dei disastrosi risultati degli studenti italiani nelle prove OCSE-PISA, hanno ricevuto certificati delle competenze e scale di livello; da qualche tempo stanno assistendo alla messa in discussione dei voti, oppure contemplano griglie e non riescono a verificare se il figlio o la figlia ‘sanno la matematica’...
Vi è da spezzare una lancia, però, nei confronti del sistema-scuola. Perché la logica sta iniziando a non essere più quella: il processo sta prendendo il posto del prodotto, la persona acquisisce rilevanza, l’attenzione si sta spostando sul benessere dello studente, più che su un insieme di sue competenze da sviluppare.
Con i tempi geologici della burocrazia scolastica e la presenza di molte ‘sacche di resistenza’, ma il nuovo paradigma è alle porte.
Al netto di velocità di evoluzione che possono anche essere tremendamente diverse, non dovremmo allora riscontrare che lavoro e scuola stanno - perlomeno in linea teorica - procedendo in una stessa direzione?
Che cosa c’è che ancora non va?
Da dove nasce questa incomprensione di fondo con la realtà delle famiglie?
Io penso che, quando ci si sente smarriti, la confusione genera immancabilmente aggressività. In troppe occasioni, noi docenti diamo ancora la sensazione di appartenere ad una setta esclusiva e abbiamo la pretesa di dover avere sempre l’ultima parola sullo studente, sulla studentessa; che, però, è innanzitutto un figlio, una figlia.
E allora scatta la rabbia, il rifiuto, financo l’aggressione.
Senza dimenticare la presenza di quelle ‘sacche di resistenza’ interne alla scuola.
Tutto sommato, credo che scuola e famiglia non si siano mai capite. Si tolleravano, alla meglio. Avevano - questo sì - un principio comune, parlavano uno stesso linguaggio. La scuola costituiva il sistema di garanzia che avrebbe permesso ai figli di conquistare la società. E dunque la si accettava in toto. Quando, invece, ha iniziato ad essere chiaro che le ‘tecniche di conquista’ della società (e del futuro) si stavano smantellando una dopo l’altra, è nato il cortocircuito. Manifestato presto da un senso di ribellione nei confronti della scuola, ‘colpevole’ di illudere gli studenti (e per qualche decennio, onestamente lo ha anche fatto…).
Bisognerebbe, in sostanza, rendersi conto - tutti - che la realtà novecentesca sta cedendo il passo ad altro.
Bisognerebbe rendersene conto nella scuola, quando ancora ci ostiniamo su (o peggio, siamo obbligati a muoverci in termini di) livelli standard da far raggiungere, dimenticando per strada flessibilità e creatività. Nostre e degli studenti.
Bisognerebbe rendersene conto in famiglia, non cedendo alla tentazione di ‘salvare’ i figli ad ogni costo, pensando che se non raggiungeranno lo standard X non saranno nessuno, in futuro.
Bisognerebbe avere il coraggio di gridarlo forte, questo nuovo paradigma. Rivendicare il diritto allo studio (e non il dovere) come occasione per appropriarsi degli strumenti che gli uomini e le donne hanno in passato utilizzato, inventato, distrutto. Per re-inventarli e con essi irrompere nella società e nel lavoro; fuori dalla scuola, dunque. Come persone nuove, non come burattini destinati ad essere schiacciati.
E la valutazione - mi dirai - in tutto ciò?
Come e che cosa scegliamo di valutare - nella scuola - va a costituire il linguaggio mediante il quale saremo in grado di avviare una comunicazione efficace (e quindi un’alleanza) con le famiglie. Che sapranno, perciò, che i loro figli sono stati presi in carico da un sistema che vuol fare di loro quelle persone nuove delle quali la società ha bisogno. Le persone nuove che a loro stessi, ai genitori dei nostri studenti, non è stata data la possibilità di diventare.
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Oggi ti propongo di analizzare il concetto di valutazione da alcune prospettive differenti, in modo da poter capire CHE COSA e PERCHÉ stiamo valutando.
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