Buon martedì ✫
Con l’articolo di oggi si conclude il percorso n.9 delle Stanze di Valore del martedì. Nelle ultime tre settimane mi sono infatti chiesta - prima di chiederlo a te - se esistesse e in che cosa consistesse la responsabilità dell’educare.
Per tua comodità, nel caso avessi ‘smarrito il filo’, ti elenco qui sotto i primi tre appuntamenti:
Mi sembra che ciò che è emerso sia stato utile nell’ottica di mettere a fuoco il ruolo di chi educa e di chi viene educato; in particolare, penso che, dentro tale sguardo, meriti di sostare ancora il tema della responsabilità reciproca (e della sua definizione).
Osservo infatti, a questo punto della riflessione, come la responsabilità del docente poggi su una sfumatura di livello diversa da quella del genitore, ma che entrambe comunque appartengano ad una - che potremmo definire - responsabilità stabilita dalla natura.
Con buona pace di chi reputa la professione docente come una manifestazione della propria individualità poggiata esclusivamente su una competenza tecnico-strategica, sto invece affermando che - come per tutte le professioni, persino per l’attività artistica dello scrittore solitario - vi sia implicato in essa un livello di relazione che non può essere puramente contrattuale.
Non sto promuovendo un’immagine dell’insegnamento come ‘missione’ o come ‘vocazione’ (assegnerei tali termini a coinvolgimenti sociali più intensi), ma sento di rivendicare per me stessa e per il mio lavoro un grado di ‘relazione con il cliente’ che non viene determinato e gestito dal contratto di assunzione o dal certificato di abilitazione all’esercizio della professione.
Se la responsabilità genitoriale è l’unica a non dipendere da alcun consenso precedente, è vero che quella del docente è basata sulla firma apposta sulla presa di servizio. Ma davvero possiamo credere che si tratti di una responsabilità che si esaurisce in quell’atto?
Le espressioni “assegnazione dell’incarico”, “accettazione dell’incarico” sono forse inevitabili, nella mastodontica burocrazia scolastica italiana, ma - quando accompagno, nei loro primi passi, i docenti precari o coloro che stanno svolgendo l’anno di prova - io consiglio sempre di lasciare quelle parole dove le hanno trovate: in segreteria, sul documento nel quale hanno apposto la loro firma.
Perché, poi, si entra in classe.
E in classe non valgono i contratti.
Lì, va ad agire una responsabilità che è a metà strada fra quella naturale delle famiglie e quella contrattuale della piscina comunale; una responsabilità ibrida la cui precisa localizzazione non esiste e muta di giorno in giorno. L’insegnante non è un genitore e nemmeno l’addetto agli ingressi, anche se a volte deve prendere le sembianze del primo e assumere il ruolo del secondo.
Per questo motivo, penso che l’azione educativa di un genitore, quando essa si applichi relativamente all’ambito scolastico, sia compito davvero improbo: sono stato investito da una responsabilità naturale e devo agire in un terreno nel quale essa non è valida. Come devo comportarmi? È evidente che, come faccio, sbaglio.
Immaginiamo invece di essere un insegnante. Se considerassi il mio ruolo come descritto e regolamentato da quel famoso contratto di assunzione di cui sopra, potrei benissimo pensare di recedere da esso. A me è stata data una facoltà di scelta che al genitore non viene fornita. Ed è vero che un docente può chiedere il trasferimento o può anche dimettersi, ma - questa è una certezza - non cesserà mai di essere insegnante!
[Ti racconto un piccolo aneddoto… Qualche anno fa, rientrando in auto dal liceo delle mie figlie, ebbi un banalissimo tamponamento. Mentre mi trovavo ferma ad uno stop, il veicolo che era dietro di me pensò bene di partire e… sbam! Il conducente era un ragazzo circa ventenne, probabilmente un fornitore di qualche ditta, che stava andando, di fretta, sul suo furgoncino. L’unico danno alla mia automobile era stata una rientranza alla targa, potevamo tranquillamente lasciarci così. Il ragazzo - probabilmente spaventato dall’eventualità di una constatazione amichevole o, peggio ancora, dal fatto che io chiamassi i vigili urbani - estrasse 50 euro dal portafogli e voleva che li prendessi. Al mio rifiuto, spazientito, mi disse: “Ma insomma! Che cosa vuole, allora?”. Ed io me ne uscii con una di quelle frasi che, poi, entrano a far parte delle leggende familiari (e che ancor oggi mi viene, ogni tanto, riproposta dalle figlie): “Io voglio che lei capisca di avere sbagliato e che si scusi!”. Capita l’antifona, e cioè che io non lo avrei alleggerito di 50 euro e che nemmeno avrei chiamato le forze dell’ordine, ovviamente il ragazzo si scusò e ci salutammo con cordialità estrema. Mio marito, quando a pranzo gli raccontammo l’accaduto, si mise le mani nei capelli (che non ha!) e commentò: “Anche in quell’occasione dovevi far notare che sei un’insegnante, vero!?”]
Eh già… Non proprio vocazione, non affetto genitoriale, ma nemmeno lo stile del burocrate o del consulente esterno. Bella sfida, no?
Che caratteristiche possiede allora questo bene (il nostro studente), totalmente dipendente da noi per i suoi apprendimenti, nei confronti del quale noi sviluppiamo una responsabilità tanto incondizionata quanto irrevocabile come quella fissata dalla natura?
{sotto il paywall il percorso continua per gli abbonati. Magari non è per te il momento di investire nella mia attività, ma nel caso trovassi utile o interessante quello che finora hai letto, ti sarei davvero grata se volessi condividerlo con qualche amico o collega. Anche con questo piccolo gesto puoi sostenere la mia ricerca e il mio lavoro. Grazie}
Continua a leggere con una prova gratuita di 7 giorni
Iscriviti a Lettere ad un (giovane) docente per continuare a leggere questo post e ottenere 7 giorni di accesso gratuito agli archivi completi dei post.