Buongiorno a te ❂
In queste giornate di esami di Stato (da insegnante e da genitore) mi è stato molto utile rileggere un’intervista che Adam Grant - ti ho già parlato di lui in passato, ricordi? - fece a Daniel Kahneman, premio Nobel per l’Economia nel 2002. Entrambi sono psicologi; e solo io trovo interessante e alquanto descrittivo del XXI secolo che uno psicologo partecipi a ricerche in ambito economico?
[L’intervista la puoi trovare qui, e ti consiglio di leggerla per intero quando rientrerai dalla spiaggia oppure da quella disgraziatissima 5A senza condizionatore!]
Il punto che ho trovato particolarmente illuminante in ciò che afferma Kahneman è quello relativo all’errore. Ancora?? Non ne abbiamo parlato a sufficienza di “accettare l’errore”, di “fare pace con l’errore”, di “lavorare sull’errore”...? Se ne parla tanto, è vero, e quelle che ho riportato sono tutte espressioni con le quali manifestiamo un frammento del metodo educativo che portiamo all’interno della relazione con gli studenti. Eppure, quando ci esprimiamo in tali termini, a me sembra che ci poniamo sempre da una sola parte della barricata: l’errore è - per definizione? - qualcosa di sbagliato, con il quale dobbiamo imparare a convivere e che dobbiamo magari anche riuscire a sfruttare a nostro vantaggio.
La lettura di Kahneman è sottilmente deviata:
“come ricercatore, considero i miei errori come esperienze positive in tutto e per tutto”
Ecco: la prospettiva del ricercatore credo sia quella mancante, nel mondo della scuola. Non vorrei soffermarmi adesso sulla visione del docente come ricercatore - immagine alla quale sento di aderire pienamente e che credo sia in grado di rispondere a molte delle zavorre che ci portiamo dietro nella professione - ma vorrei provare invece a declinarla sul singolo studente.
E quindi:
Perché dovremmo considerare lo studente un ricercatore?
Come possiamo accompagnarlo nella scoperta di una tale identità?
Ed anche… questa prospettiva implica una deflessione della traiettoria delle nostre attività didattiche?
La risposta alla prima domanda nasce abbastanza ovvia, dalla stima di fondo che ognuno di noi ha dei suoi studenti (e se non ce l’ha, magari sarebbe il caso che inizi a pensarli come persone e non come plutarchei ‘vasi da riempire’). In una sorta di similitudine esistenziale, così come io (adulto) mi auguro di trascorrere una vita nella direzione della scoperta dei contorni di me, allo stesso modo auguro alla giovane persona che ho davanti di intendere in tal modo qualsiasi esperienza gli accada. Anche quelle della scuola, dello studio, dell’apprendimento, della conoscenza.
Le domande successive credo siano le due facce di una stessa medaglia, poiché la modalità nell’esplicitare la direzione nella quale docente e studente muoveranno determina necessariamente la scelta di alcune azioni specifiche da parte nostra.
Ho provato quindi a rielaborare la cifra di ciò che io sono rispetto alle mie classi, alla luce di una dimensione ‘di ricerca’ da rendere maggiormente nelle azioni e proposte didattiche.
(Ripeto: oggi non voglio sottolineare la descrizione dell’insegnamento come ricerca; tornerò a parlarne più avanti; mi interessa porre in evidenza la prospettiva dell’apprendimento come ricerca)
Non credo che l’empatia - se così la si vuol definire - sia lo strumento più efficace per manifestare agli studenti la necessità e la bellezza dell’abito da ricercatore. La dimostrazione di che cosa sia l’oggetto di ricerca, sì. Mi spiego: se ci poniamo come ‘organizzatori di una caccia al tesoro’ sarà difficile non indurre i nostri studenti a pensare che il solo dato che registreremo sarà il loro riportare per primi l’oggetto nascosto! “Io sono qui, nella sezione della conoscenza, tu sei là, in quella della non conoscenza… vediamo un po’ quando ci arrivi, da me!”
Che poi, detta così, potrà sembrare un’esagerazione progressista, ma - e sto per esagerare! - una verifica costituita da una serie di domande alle quali dare (la corretta) risposta non è forse la forma di richiesta che siamo soliti porre, per abitudine e comodità? E mi vengono in mente i meravigliosi manuali di testo che, nella matematica, stanno tentando di operare una breccia in tal senso. Uno su tutti, il Contaci! (#no adv, come si dice, no?). Meno esercizi, più problemi; meno crocette, più argomentazione. Eppure… vi è, tra di noi, chi non tollera manuali simili proprio per questo motivo: troppo pochi, gli esercizi! (E poi magari ci chiediamo l’arcana ragione per la quale, ad esempio, la matematica sia la disciplina più odiata e/o i ragazzi non sappiano argomentare…)
Porsi dalla stessa parte degli studenti nella ricerca del sapere non significa - come una certa banalizzazione reazionaria dell’insegnamento vorrebbe - essere il docente ‘amico’ e nemmeno quello ‘permissivo’. Nella mia esperienza - mia come docente e come collega di alcuni illuminati docenti - semmai significa proprio il contrario. Significa essere l’adulto-adulto che, proprio perché sa che cosa c’è in palio, si mette al tuo fianco per dimostrarti come si fa. Ma lo farai tu, ed io non ti sconterò nulla.
La didattica ‘per problemi’ (della quale mi sto occupando in queste ultime settimane negli appuntamenti del martedì, che puoi recuperare qui, qui e qui) è la didattica dell’errore, è la didattica che favorisce e valorizza un atteggiamento di ricerca del sapere. Mi verrebbe da dire che lo favorisce sia nello studente che nel docente stesso, il quale non correrà perciò il rischio di essere annientato dalla ripetitività e dall’ignoranza dei suoi studenti.
Dimmi… la tua didattica assomiglia già ad una esplorazione?
Buona settimana!
Simona