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Buongiorno e buona ultima settimana di lezione!
A proposito di lezioni, dello stare in classe, dell’essere - in un certo senso - su di un palco e ‘attori’ in una rappresentazione, stavo riflettendo sul concetto di persuasione e stavo cercando di declinarlo sulla nostra attività in classe.
Non decidiamo forse, ogni giorno, di mettere in scena - con le nostre parole e, soprattutto, con i nostri gesti - una pièce teatrale che abbia lo scopo di suscitare l’immedesimazione del nostro giovane pubblico? Mi è sempre piaciuto pensare alle mie azioni in classe come ad una sequenza ragionata di azioni e parole, ‘assistendo’ alle quali desidero che i miei studenti gettino la loro persona altrove. In un altrove che è dato da ciò che essi ancora non conoscono, sul quale non hanno mai riflettuto con attenzione, dal quale potrebbero trarre spunti di crescita e cambiamento per le loro vite. L’azione (e l’effetto) di questo lanciarsi viene, in sintesi, chiamata esperienza di apprendimento, mentre ciò che la suscita è quel desiderio di testimonianza del quale scrivevo qui.
Proseguendo in questo terreno semantico, implicita nella mossa della testimonianza vi è la tensione della persuasione. Certo, se ripensiamo al teatro tragico dell’Atene del IV e V secolo a.C., persuadere e manipolare erano due verbi che rappresentavano due facce di una stessa medaglia, che era il tentativo di condurre un’altra persona a condividere le proprie opinioni (πειθώ). Lo strumento che, più di ogni altro, permetteva di raggiungere la πειθώ era, evidentemente, il λόγος e - ahi ahi! - procedere lungo questa via di significato porterebbe pericolosamente ad avvicinare l’arte della retorica all’arte dell’insegnare, e noi stessi a considerarci come sofisti (assecondando l'accezione negativa espressa da Platone e poi rimasta).
Non vorremo certo descriverci come sofisti, vero?
Procedo allora spedita e giungo ad Aristotele, il quale - se è vero che non agì in modo da modificare lo sguardo che ogni intellettuale aveva dei sofisti - associò all’azione della persuasione tre componenti. E sono queste, adesso, ad interessarmi. Nel 2023. Nella scuola italiana, ferita da più parti.
La buona - cioè persuasiva - argomentazione era composta, secondo Aristotele, da tre atti: 1) il λόγος, come già detto; 2) l’ἤθος e 3) il πάθος.
Mi voglio divertire, quindi, a traslare il significato di queste tre sezioni della retorica secondo i Greci nei tre possibili ‘movimenti’ dell’opera che rappresentiamo in classe davanti agli studenti.
Il logos: la rettitudine del ragionamento che proponiamo; le dimostrazioni che portiamo (anche se siamo docenti di discipline umanistiche) grazie allo strumento che è μέγας δυνάστης (‘possente dominatore’, nella definizione di Gorgia).
L’ethos: il convincere l’altro della bontà delle nostre ‘credenziali’. All’interno di questo ‘atto centrale’ io vedo posizionarsi la manifestazione che diamo di chi siamo, la relazione che avremo saputo instaurare con ognuno degli studenti, le scelte - anche impopolari - che avremo preso mettendoci al loro fianco. Il nostro ethos non risiede nel numero di anni di servizio, e nemmeno nei risultati che le nostre classi hanno ottenuto nelle prove Invalsi! Quando verranno riconosciute le ‘buone intenzioni’ che abbiamo avuto per le nostre classi? Quando verrà sanzionata ogni parola di sarcasmo proveniente ‘dall’alto’ della nostra competenza? Quando si potrà liberamente parlare di ‘umiliazione’ esercitata in aula?
Il pathos: il coinvolgimento che desideriamo suscitare nella classe, in modo da accertarci che ognuno degli studenti abbia cura di ciò che stiamo presentando loro. Ritorna, nella dimensione del pathos, non tanto una tensione affabulatoria, una manipolazione emotiva, ma l’azione della ‘cura’. Ti ricordi che ne avevamo già discusso (qui, ma anche qui)...? Ma ritorna anche la necessità della testimonianza: se ciò di cui sto parlando non interessa a me in prima persona, perché gli altri dovrebbero essere disposti ad ascoltarmi?
A me, ciò di cui ti ho scritto oggi, interessa moltissimo…
Buona settimana e buoni scrutini!
Simona